Se ami davvero le persone che ti sono accanto il regalo più bello che puoi fare loro, per contribuire alla loro serenità, è quello di prenderti cura di te stesso.
Sì, hai capito bene!
Si tratta proprio di percorre una strada un po’ contro-intuitiva o quantomeno non comune.
Non tanto per le cose che fai – quelle arrivano da sé – quanto rispetto a come funziona la tua mente.
Qual è il senso delle cose che fai.
Una cosa forse elementare ma quanto mai imprescindibile è conoscere quale sia la cornice di senso che giustifica e conferisce significato a tutte le cose che fai.
Conoscere bene quale sia il principio (o i principi) che guidano il tuo fare e le tue scelte, è di fondamentale importanza per conferire profondità e soddisfazione alle cose che fai.
Seguendo una sorta di scala ideale è imprescindibile conoscere bene quali sono le qualità valoriali che per te sono al primo posto poiché sulla base di questa consapevolezza ognuno dei tuoi gesti, dei tuoi pensieri, delle tue decisioni, delle tue scelte dovranno fare i conti con questa scala di valori.
Se manca di coerenza, se il rapporto tra i tuoi valori fondamentali, i pensieri e i gesti che compi si trovano in disaccordo è inevitabile che il risultato che otterrai non può essere che faticoso e deludente.
Allora, la domanda diventa fondamentale:
Qual è il valore più importante che orienta la tua vita?
Prenditi un po’ di tempo per rispondere a questa domanda.
Pensaci bene, poiché conoscere la tua scala di valori è decisivo poi per capire come mai certe scelte, certe riflessioni, centri vissuti emotivi che vivi creano un profondo stato di malessere.
Anche se apparentemente nulla di quello che fai sembra essere irragionevole.
È piuttosto soggettiva come cosa, mi rendo conto:
per alcuni il valore più importante è la famiglia, per altri la salute, per altri ancora il lavoro, la propria realizzazione professionale, il proprio impegno sociale, ecc.
Tutte importanti. Ognuna ha il suo peso fondamentale.
Ogni risposta a questa domanda può aiutarti a capire quali sono le premesse fondamentali del tuo modo di intendere il mondo.
Sulla base poi di quella risposta è facile capire quali dovrebbero poi essere i gesti e i comportamenti che daranno coerenza e soddisfazione alla tua vita.
Il disagio, il malessere, la delusione, la frustrazione o anche sintomi psicologici più gravi possono effettivamente nascere proprio dal fatto che tra quelle che sono le tue credenze, i tuoi valori e le scelte ed il tuo comportamento si genera una contraddizione, un’interferenza.
Se per te la famiglia è al primo posto nella scala dei valori, non avrai alcun problema a rinunciare ad un’occasione professionale che ti porterebbe a vivere lontano dalla tua famiglia.
Giusto? Oppure no?
Se per te la salute viene prima di ogni cosa non dovresti avere difficoltà a rinunciare ad un lavoro estremamente stressante seppur ben pagato.
Giusto? Oppure no?
Immagino adesso starai pensando che le cose non sono così semplici.
Le questioni della vita sono molto più complesse e difficili. Forse.
Non sempre si può, non sempre si riesce ad avere quello che si vuole.
Sicuramente hai ragione.
Ma il punto centrale che voglio condividere con te è provare a riflettere sul fatto che forse, tante volte, non siamo nemmeno in grado di capire esattamente quali sono le nostre premesse, i nostri valori fondamentali.
Non ci curiamo affatto di considerare se quello che ci capita, le cose a cui diamo retta, le scelte che prendiamo, le occasioni che ci arrivano, siano davvero aderenti e coerentei con il nostro funzionamento interno.
Tutto questo si esprime come forma di sofferenza ogni volta che siamo messi alle strette;
ogni volta che sentiamo l’urgenza di dover cambiare qualche situazione che ormai è diventata invivibile.
Per quanto mi riguarda, occupandomi di salute e benessere psicologico inevitabilmente sono portato a mettere al primo posto una dimensione irrinunciabile che traduce poi concretamente quello che potremmo definire come compito essenziale della vita.
Si tratta di un aspetto alquanto semplice, ma che se posto come bussola orientativa trasforma automaticamente il peso che attribuiamo a tutte le cose che facciamo.
Che sia il lavoro, lo studio, il denaro, le relazioni, gli stili di vita, i sogni, i propri desideri, le proprie aspettative, ecc.
Qualunque sia la complessità della tua vita, nel momento in cui questo aspetto viene posto in cima alla scala dei propri valori, tutto il resto assume una veste particolare, acquista un senso di coerenza (o meno) in funzione di quello.
Per quanto mi riguarda, per esempio, al centro del mio orizzonte di senso io pongo attualmente una cosa soltanto:
il benessere psico-fisico.
Semplice no? Forse sì, ma forse no!
Prova a fare questo piccolo esperimento:
immagina di mettere il tuo benessere al centro della traiettoria di senso della tua vita.
Prova a collocare il tuo benessere psico-fisico quale riferimento ultimo verso cui far convergere ogni tua azione, ogni sforzo quotidiano.
Posto il benssere psico-fisico come punto focalizzante, che senso assume il tuo lavoro se diventa uno strumento al servizio del tuo benessere?
Che peso assume il denaro che guadagni se diventa uno strumento al servizio del tuo benessere?
Che qualità prendono le tue relazioni se diventano strumenti al servizio del tuo benessere?
Come puoi immaginare lo scenario della tua mente che orienta ogni gesto, ogni parola, ogni comportamento della tua vita, posto questo aspetto al centro della progressione di senso delle tue azioni, assume una vesta completamente diversa.
Forse anche più rilassata. Più umana.
Ad onor del vero, c’è davvero qualcos’altro di cui occuparsi?
Nella mia esperienza, personale e professionale, ho avuto modo di sperimentare come questo tipo di impegno verso sé stessi, protratto nel tempo, passa per una maggiore consapevolezza di sé, una maggiore capacità di cogliere i propri vissuti emotivi, decifrarli e con questo operare su di sé una vera e propria trasformazione.
Le persone che si sono rivolte a me — indipendentemente dal tipo di sofferenza che vivevano (depressione, lutti, separazioni, disturbi alimentari, ansia, panico, ossessioni, angosce, paure, ecc.) — attraverso il loro impegno ed il loro coraggio di riflettere ed esporsi alla possibilità di trasformare le proprie vite, mi hanno convinto ancora di più che questo compito legato alla cura di sé sia il centro fondamentale dell’impegno che ognuno di noi dovrebbe assumere per il bene collettivo.
Io credo che sia una delle cose cui vale la pena concentrare il proprio impegno di vita proprio perché quello che c’è in ballo è di fatto la vita stessa, il modo salutare di vivere.
Bene allora, procediamo con ordine.
Se questo porre come orientamento, come punto focale di vita il tuo benessere, quello che ne è utile chiedersi è:
In questo post mettiamo mano a questa “professione” della cura di sé.
Proviamo a creare una postura della mente che ci aiuti a guardare alle cose quotidiane con un orizzonte di senso diverso, rivolto alla cura di sé.
Tutto questo con la consapevolezzza che il compito di aver cura di sé tende a trasformare la vita in qualcosa di importante, provando ad orientare il senso del tuo fare quotidiano.
Sei pronto? Andiamo.
Sono Michele Accettella, psicologo, psicoterapeuta, analista junghiano a Roma. Da oltre 15 anni aiuto le persone a migliorare la qualità delle loro vite attraverso la crescita della personalità. Il mio lavoro consiste nel creare le migliori condizioni possibili — all’interno della relazione terapeutica — affinché possano svilupparsi al meglio i vari aspetti della tua personalità e conquistare con questo una maggiore soddisfazione di vita.
Nell’immagine che vedi ho riportato il cosiddetto “rapporto aureo”, la “sezione aurea” (o costante di Fidia), legata alla successione di Fibonacci.
Definisce al cosiddetta “proporzione divina” – come viene anche chiamata.
Tipicamente viene considerato come un rapporto che trovandosi di frequente in constesi naturali e culturali nel corso della storia ha suscitato nell’uomo la convinzione dell’esistenza di un rapporto tra macrocosmo e microcosmo, tra il tutto e la parte, tra Dio e uomo, universo e natura, ecc.
Al di là della grande fascinosità di questo “rapporto aureo” credo possa essere utile prendere a prestito questa “immagine” per considerare l’idea che possa esistere un “rapporto tra le cose“, un certo “equilibrio fondamentale” che può orientare il nostro modo di gestire le cose che ci riguardano, anche dal punto di vista intimo.
Costruire una realtà di vita esterna a noi, frutto della cura e dell’attenzione equilibrata dei nostri processi interni (pensieri, emozioni, intenzioni, motivazioni, immaginazioni, valori, intuizioni, sensibilità, ecc.), credo pienamente possa essere assunto come traiettoria sempre valida per creare e orientare la “giusta misura del vivere”.
Ecco perché, per certi versi, la cura di sé può rappresentare il compito elettivo di una vita ben spesa.
In antichità veniva chiamata epimeleisthai heautou:
prendersi cura di sé stessi.
Si trattava di qualcosa di molto importante legata all’arte di vivere.
Prendersi cura di sé voleva dire impegnarsi per tutta la vita a migliorare sé stessi, lavorando – attraverso esercizi tipici – alla definizione di una struttura di funzionamento della propria personalità al servizio del proprio benessere.
Anzi meglio:
la vita stessa si esprimeva attraverso questo tipo di impegno.
“Prendersi cura di sé” rappresentava, di fatto, il tipo di esperienza che dava senso alla propria vita, migliorando il grado della propria esistenza ed elevando pure tutta la collettività.
E sì, perché se ci pensi bene l’idea di “prendersi cura di sé”, di garantirsi, per quanto possibile, un equilibrio di benessere verso sé stessi, inevitabilmente avrà l’effetto di migliorare la qualità della tua vita e di buona parte delle persone che sono intorno a te, che ne godranno gli effetti positivi.
Ma qual era lo scopo di tutto questo lavoro di cura di sé?
Tra i greci la cura di sé aveva come meta la compiuta realizzazione della propria esistenza.
“Prendersi cura di sé” significava lavorare per creare le condizioni più favorevoli affinché la propria personalità e la propria vocazione, avessero la migliore occasione di esprimersi a pieno attraverso gli atti e le azioni della vita.
Darsi concretamente a questo compito significava pure esprimere la propria personalità attraverso la propria opera nelle cose del mondo (attraverso il lavoro, lo studio, le relazioni, i comportamenti, gli atteggiamenti, ecc.).
Tutto si esprimeva attraverso il fare espresso concretamente nelle cose del mondo.
In questo modo si dava espressione alla propria personalità e al proprio essere in vita proprio attraverso l’opera delle cose attraverso una serie significativa di esperienze.
Creare la propria forma del vivere bene passa attraverso delle operazioni specifiche, dei veri e propri allenamenti, degli esercizi finalizzati alla costruzione consapevole della propria individualità.
Per cominciare ad allenarsi, possiamo partire da 3 processi fondamentali:
La possibilità di crescere è segno di imperfezione.
Seneca Tweet
Certo, si può vivere anche solo conservandosi nel tempo. Assecondando il susseguirsi di quel soltanto ciò quel che capita. Può essere un modo di impiegare le ore della vita, questo sì, perché no.
Ma vivere può essere anche qualcos’altro.
Ed è di questo di cui ci occupiamo qui.
Inziamo l’allenamento.
“Pensare le emozioni, sentire i pensieri”.
Questa espressione è ripresa dal sottotitolo di un libro di Luigina Mortari, La sapienza del cuore. Pensare le emozioni, sentire i pensieri.
In questo libro la filosofa Luigina Mortari sottolinea quanto sia importante indagare non soltanto la natura dei propri pensieri, ma anche la qualità del proprio sentire.
Il sentire come elemento che ci fa avvertire la qualità dell’esperienza.
Che cosa significa?
Allenarsi a sviluppare la capacità di sintonizzarsi con i propri vissuti emotivi, familiarizzare con la propria capacità di cogliere e decifrare quello che in ogni istante ci attraversa, rappresenta una delle migliori conquiste possibili per la conoscenza di sé ed il proprio equilibrio psico-fisico.
Il pensare essenziale è quello che accade nel cuore e, viceversa, il cuore che aiuta nel mestiere di vivere è quello che pensa.
Luigina Mortari Tweet
“Pensare le emozioni, sentire i pensieri” significa sviluppare una particolare capacità che nasce da una distinzione fondamentale:
saper distinguere le emozioni situazionali dalle emozioni di sfondo.
Questa è una distinzione importante che suggerisce Luigina Mortari, in quanto sottolinea come la nostra vita affettiva sia contraddistinta da:
Mi sembra importante questa distinzione perché saper riconoscere le emozioni, saper distinguere se si tratta di una emozione legata specificamente ad una situazione particolare, rispetto all’emozione che appartiene in maniera generica alla tipica condizione emotiva che vivi normalmente, aiuta a focalizzare l’attenzione sul tuo processo di conoscenza.
Riconosciamo noi stessi all’interno di quel particolare registro emotivo, diversamente da quel registro emotivo che di volta in volta si modifica a seconda della situazione attuale che si sta vivendo in quel dato momento.
Uno stato emotivo che riconosciamo essere specifico del nostro modo di funzionare al meglio.
Ma che cosa significa pensare le emozioni e sentire i pensieri?
Pensare le proprie emozioni significa avere la capacità di dare attenzione ai propri stati emotivi per ottenere in ogni situazione che viviamo la cifra e il valore che di volta in volta assegnamo alle nostre esperienze.
Non dimentichiamoci che un’emozione è un processo psichico razionale (hai letto bene: razionale) che ci comunica puntualmente il giudizio che stiamo assegnando alla particolare situazione che stiamo vivendo.
Tramite le nostre emozioni siamo in grado di stabilire se la particolare situazione che stiamo vivendo in questo momento è piacevole o angosciante, positiva o negativa, attraente o spaventosa, ecc.
Saper dare un nome puntuale a quelle che sono le esperienze emotive in ogni momento del nostro presente, saper decifrare il tipo di emozione in essere ed il gradiente emotivo che ci sta attraversando in questo preciso momento, significa saper cogliere pure il giudizio che, in maniera “viscerale” (automatica), stiamo assegnando alla situazione che stiamo vivendo.
Riuscire a dirsi, decifrando il proprio sentito, che ciò che stiamo vivendo è per noi una situazione angosciante significa anche poter decifrare come mai, per esempio, non riuscaimo ad intevenire per modificare le cose;
significa pure in quel modo provare a capire come mai ci esponiamo sistematicamente a quella situazione in maniera ripetitiva;
oppure, come mai ci sentiamo in dovere di non poter fare diversamente, ecc.
La capacità di riconoscere, distinguere, nominare e decifrare ogni nostro vissuto emotivo, ci consente di leggere in maniera più consapevole quanto ci accade dentro e intorno a noi.
Questo processo fondamentale ha a che fare con la nostra capacità di conoscere adeguatamente il “mondo” (dentro e fuori di noi) attraverso il quale possiamo avere la possibilità di comprenderlo.
E, come è facile intuire, se io comprendo una cosa allora, posso pure controllarla.
Se pensiamo ad esempio agli stati di ansia, ai momenti di panico, di fatto quello che intimamente accade è la perdita del controllo.
Il non riuscire a capire esattamente che cosa ci sta accadendo.
Tutto questo si traduce con delle sensazioni generali di destabilizzazione, attivazione psico-fisica, ecc. come se, per via del fatto che non è stato possibile decifrare “visceralmente” (automaticamente) gli stati emotivi che stavi vivendo, il caos, la vertigine, la perdita di controllo, agiscono con tutta la lora forza (se vuoi approfondire il tema dell’ansia e del panico, puoi leggere il mio articolo dedicato a questi temi: Come curare l’ansia e il panico. Sintomi, cause e cura dei disturbi d’ansia).
Questo processo di conoscenza di sé che passa per una alfabetizzazione delle emozioni, del proprio sentito, ha a che fare – come puoi capire meglio adesso – con una attenzione al tuo corpo alle tue percezioni sensoriali che ti attraversano nel momento presente.
Questo allenamento, questa capacità di sentire sé stessi nel mentre sei dentro l’esperienza è parte fondamentale della cura di sé.
L'uomo produce l'uomo attraverso una vita di esercizi.
Peter Sloterdijk Tweet
Conoscere sé stessi significa darsi l’opportunità di pensare la propria mente, pensare i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri vissuti.
Conoscere sé stessi significa dare un nome ai propri vissuti, coglierne il senso e la direzione, dare significato ad ognuno dei propri processi psichici.
L’obiettivo è quello di riuscire a distinguere le qualità persistenti di sé stessi, dalle qualità situazionali legate ai momenti specifici dell’accadere propri di quel dato momento — torneremo poi su questa distinzione fondamentale.
Che cosa vuol dire tutto questo?
Esercitarsi alla conoscenza di sé stessi, attraverso l’auto-indagine, attraverso un’operazione di riflessione su sé stessi è estremamente importante per capire primariamente quali sono le tue qualità, i tuoi valori fondamentali.
Cogliere e circoscrivere tali qualità individuali significa fissare i punti saldi del tuo funzionamento interno.
“Conoscere sé stessi”, “pensare sé stessi” significa compiere una riflessione onesta sul proprio mondo interno.
Si tratta soprattutto di non nascondersi.
Di resistere alla tentazione di allontanare dalla propria verità tutte quelle qualità che non sono molto allettanti o molto nobili.
Queste pratiche prettamente “spirituali” di auto-indagine, di conoscenza di sé, producono una profonda trasformazione.
Non si tratta di rintracciare qualcosa che è lì dentro noi stessi, immobile, come qualcosa che aspetta solo di essere scovato e rivelato.
La conoscenza di sé è un tipo di conoscenza che nel mentre viene sperimentata produce una modifica qualitativa e strutturale della propria personalità.
Mentre siamo alle prese con l’autoanalisi della vita della nostra mente, mentre siamo impegnati intorno a questo esercizo di riflessione operiamo letteralmente una modifica radicale della nostra consapevolezza, della nostra identità e dunque, del nostro atteggiamento verso le cose del mondo.
Come puoi immaginare ogni cosa che facciamo, verso cui ci impegnamo, ha a che fare con la ripetizione:
bisogna esercitarsi, applicarsi per un certo periodo di tempo sufficientemente lungo.
Imparare a suonare uno strumento musicale, andare in bicicletta, migliorare il tuo benessere fisico facendo jogging, imparare una nuova lingua, ecc. sono tutte competenze che si acquisiscono essenzialmente con un unico metodo:
la ripetizione.
Se senti la spinta e il desiderio a voler raggiungere un certo grado di benessere psicologico il metodo da utilizzare è comunque sempre lo stesso.
Sperimentare, rielaborare, ripetere. E ancora, sperimentare, rielaborare, ripetere. E di nuovo dall’inizio. E così di nuovo.
È attraverso questo processo circolare ripetitivo che ci si pone nella migliore condizione possibile di conoscere sempre più a fondo il proprio modo specifico di funzionare.
È attraverso questo processo circolare che è possibile osservare i modi che abbiamo di formulare pensieri, sentire le esperienze, elaborare le dovute reazioni.
Ogni cosa della mente segue un continuum, una particolare traiettoria.
Per cui ogni pensiero, ogni emozione ha una propria continuità.
Una serie di “catene” associative di storie che hanno una loro complessità di piani e evoluzioni specifiche.
Percorrere e ripercorre queste “geometrie interne” vuol dire compiere uno sforzo di auto-consapevolezza che restituisce una comprensione sempre più raffinata e precisa di cosa viene stimolato ogni volta che abbiamo a che fare con un pensiero o un’emzoione.
C’è una storia che si schiude ogni volta che proviamo a seguire il flusso dei nostri processi psichici.
Una storia che si svolge da un certo passato, fino ad un futuro immaginato che passa per un presente attuale che di volta in volta si attualizza e si modella costantemente.
Certo, riflettere non è facile.
Certamente si tratta di un’operazione contraria al libero fluire del proprio essere.
Riflettere richiede lo sforzo intenzionale di interrompere parzialmente il fluire della propria mente.
Riflettere significa cambiare posizione, cambiare atteggiamento verso il mondo.
Osservare le cose con uno sguardo diverso.
Implica una postura della mente profodamente diversa dall’abituale.
Questo genere di operazione è letteralmente contro natura.
Non è per nulla scontato.
Riflettere sui propri pensieri o sulle proprie emozioni significa pure allenarsi ad assumere un modo particolare di far funzionare la propria mente.
Un modo che si configura a lungo andare come un vero e proprio processo di cura di sé.
Non dimentichiamoci che è sempre la propria mente che indaga sé stessa:
l’oggetto dell’indagine e il soggetto che indaga coincidono.
È la mente stessa che riflette su sé stessa.
Questa particolarità tipica della psicologia definisce inevitabilmente sempre un limite.
Si è sempre soggetti ad una parzialità.
Bisogna sempre tenere a mente che la verità che si cerca di acciuffare è sempre limitata.
Sempre vincolata alla propria parzialità.
Bisogna sempre fare i conti con il limite dell’umano che sempre ci abita.
Questo non deve scoraggiare, non deve portarci a ritenere che questo genere di operazione non abbia valore, poiché non è mai definitiva.
Tutt’altro.
Questo limite sempre presente deve indurci a ritenere che il processo di conoscenza non si esaurisce mai.
L’attenzione non deve cadere sull’obiettivo di “sapere tutto di sé”, ma deve ricadere sul processo stesso dell’auto-coscienza.
La trasformazione che si determina essenzialmente con l’atto stesso di riflettere su di sé.
Prendersi cura di sé, migliorare il proprio benessere, darsi la possibilità di far crescere la propria personalità sono tutte azioni che si ottengono attraverso l’esercizio ripetuto della verità.
Sì, si tratta proprio di prendere atto, nel bene e nel male, di quello che via via emerge attraverso la riflessione su se stessi.
Ma ci sono delle attività specifiche che posso utilizzare per conoscere meglio me stesso?
Certamente. Alcune sono antichissime e piuttosto semplici da usare.
Per esempio:
Questi semplici esercizi ti danno la misura e la cifra utile per dare fondamento concreto a quelli che sono i tuoi pensieri, i tuoi dubbi, le tue speranze.
Rileggere questi scritti poi, ti offre la possibilità di valutare la coerenza e la profondità del tuo mondo interno dandoti l’occasione di poter fare esperienza dei propri processi psichici interni.
Tutto questo ti sarà utile per dare via via forme sempre più compiute ai tuoi pensieri, ai tuoi vissuti, ecc. portandoti a confrontare questi contenuti con quelle che sono poi le tue scelte, le tue azioni, i tuoi comportamenti.
L’idea è quella di costruire conseguentemente una più profonda coerenza con te stesso imparando l’arte di vivere:
l’arte di esistere per trovare la buona forma del vivere.
Il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, professore di filosofia ed estetica alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe (Germania), di cui è rettore dal 2001, nonché insegnante anche all’Accademia di Belle Arti di Vienna la chiama così: antropotecnica.
L’insieme delle condotte mentali e fisiche basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani di tutte le culture hanno tentato di escogitare un modo per rendersi immuni dinanzi ai rischi della vita e alla certezza di morire.
Si tratta — in altre parole — di immaginare la tua vita come un insieme di esercizi (mentali e fisici) che ripetuti, raffinati, interiorizzati, ti permettono di allenarti per strutturare la forma massima delle tue potenzialità.
L’uomo è inteso dunque come Homo repetitivis, Homo artista:
un individuo in continuo allenamento, continuamente posto nella posizione di indagare sé stesso per creare la migliore forma possibile di sé.
Vivere bene allora, chiede un continuo lavoro di perfezionamento.
Un costante e quotidiano processo di approfondimento dei proprio processi psichici (pensieri, emozioni, sensazioni, intuizioni, ecc.) per perfezionare e adeguare in maniera sempre più precisa il proprio modo di vivere, attraverso continui aggiustamenti alla propria vita concreta.
Un lavoro che coinvolge la tua personalità intera.
Uno degli aspetti fondamentali del nostro allenamento ha a che fare con la convinzione che siamo costantemente immersi in un mondo.
Anzi meglio: il modo in cui siamo in relazione con il mondo sancisce pure quella specificità che è il nostro modo distinguibile di stare al mondo.
Il nostro modo di “stare al mondo” definisce dunque, il nostro particolare atteggiamento verso le cose, il nostro sguardo interpetativo sulle cose.
Il modo specifico che abbiamo di leggere il mondo intorno a noi (o dentro di noi) — è sempre importante ricordarlo — è frutto di quella postura specifica della nostra mente che legge i fatti della vita in un modo specifico e individuale.
Da un punto di vista soggettivo, ognuno di noi vive in un mondo diverso.
Ognuno di noi abita una realtà anche profodamente diversa da quella degli altri.
Tutto questo significa che una parte del nostro benessere passa pure attraverso la capacità di capire che la nostra soggetività, così particolare e specifica, agisce direttamente nella relazione con il mondo intorno a noi.
La sofferenza per certi versi nasce pure da questa particolare modalità che abbiamo di entrare in relazione con il mondo.
Finché rimane viva una certa dose di tensione-verso-il-mondo, finché agisce in noi una propensione ad esporsi alle cose del mondo, finché rimane in piedi in noi la possibilità di creare occasioni affinché si possa esprimere, nel mondo, la nostra personalità, avremo modo di essere soddisfatti del nostro essere.
Questo aspetto della cura di sé ci vede impegnati in un’operazione di edificazione della nostra personalità attraverso quello che facciamo nel mondo, nel rapporto con gli altri, e nel rapporto con le cose di cui ci circondiamo.
Tutto questo include pure l’errore, le correzioni che si rendono necessarie per perfezionare quella specifica modalità di “essere nel mondo” che deve trovare la “buona forma” per una piena soddisfazione di sé.
Quando ci si espone alla pratica, quando si accetta la sfida di "por mano all'opera", può succedere di dover fare i conti con il fallimento, più che con l'errore, di dover constatare certi limiti delle proprie abilità sui quali non si può intervenire.
Richard Sennett Tweet
E qui veniamo ad uno degli aspetti forse più significativi dei nostri allenamenti alla cura di sé da considerare e tenere sempre a mente:
il vero obiettivo è il processo!
Che cosa vuol dire?
A partire da una condizione legata alla nostra contemporaneità, quale società della performance, siamo ormai abituati ad osservare, e soprattutto a valutare, le cose della nostra vita in funzione del dato quantitativo misurabile che quelle cose ci restituiscono.
Un buon progetto, una buona scelta è possibil edefinirla come tale in funzione di quanto sono imporanti i risultati misurabili ottenuti.
Se non c’è un ritorno valido, cospicuo, non ne vale la pena;
anzi: l’intero progetto è sensa senso, non serve a nulla, non ha valore.
Questa impostazione può avere una sua importanza fondamentale laddove ci rendiamo conto di compiere tutta una serie di scelte e di agire tutta una serie di comportamenti in funzione del fatto che questi siano posti al servizio di uno scopo preciso e misurabile all’interno di uno specifico ventaglio di oggetti misurati condivisibili secondo la cultura dominante.
Detto in altri termini:
siamo portati a compiere delle scelte sulla scia del risultato che possiamo ottenere, all’interno di un gruppo preciso di scopi ritenuti validi dalla coscienza collettiva:
ci impegniamo in un progetto o in un lavoro per, non so, i soldi che possiamo ottenere, per il tipo di successo che possiamo trarne, per il risulato misurabile che possa favorire la nostra ascesa, ecc.
Scegliamo la scuola, l’università, il lavoro in virtù delle statistiche di opportunità professionali che quelle ci possono offrire.
Avere cnsapevolezza che buona parte delle nostre scelte sono veicolate dalla coscienza collettiva ci mette nella condizione di distinguere specificamente quali forze sono in gioco ogni volta che prendiamo delle decisioni, ogni volta che elaboriamo un certo tipo di riflessione, ogni volta che rispondiamo in maniera automatica a tutta una serie di esperienze che viviamo.
La postura della nostra mente è organizzata intorno ad un modello razionale di funzionamento che esclude ogni altra forma possibile di attività, ritenuta essere senza senso.
Che senso ha impiegare tempo,
Quello che ti propongo qui, non è il rinnegare questo tipo di approccio propiro perché effettivamene è produttore di risultati, traguardi validissimi, ecc.
Qui si tratta di tenere a mente il fatto che lo scopo fondamentale verso cui tendono tutti i nostri progetti, i nostri sforzi, i nostri impegni – nell’ottica della cura di sé – pone al centro la conquista e la persistenza di uno stato di benessere soggettivo.
Ecco perché, nell’ottica della possibilità di conquistare un vero e proprio “stare bene“, ha molto più valore e importanza “come” si costruisce quella direzione, “come” si modella sé stessi in funzione di quello “stare bene”, e “come” ci sentiamo durante quella operazione di coistruzione di sé.
Essere attenti al processo, essere interessati e appasionati a quello che si fa quotidianamente per modellare la propria vita conquistando un certo benessere divante letteralmente il vero scopo.
Questo di fatto, diventa il senso che spinge alla motivazione, alla perseveranza, producendo evidentemente poi gli effetti sperati.
Ma non tanto perché si è conquistato un obiettivo concreto esterno, quanto perché siamo noi diventati “migliori” nel mentre siamo impeganti in quel processo.
Non è la ricompensa l’elemento che ci motiva, che ci attre e che ci fa fare cose importanti o straordinarie;
quello che ci motiva è propriamente l’essere impegnati col processo.
È nell’atto stesso di adoperarsi alla cura di sé che si ottiene quel grado di soddisfazione utile per dare senso al proprio stare al mondo.
Per sé e per gli altri, certamente.
Quello che davvero conta è il processo: qualcosa forse di più importante di ogni obiettivo da raggiungere.
Questo è il mio lavoro, questo è il mio impegno!
Un saluto, a presto.
Michele Accettella
Sono psicoterapeuta abilitato all’esercizio permanente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.
In oltre 15 anni ho accumulato più di 15.000 ore di lavoro in ambito clinico, come psicologo e come psicoterapeuta.
Per diventare analista junghiano, per oltre 5 anni, sono stato anch’io in terapia, poiché per conoscere l’altro è necessaria una conoscenza approfondita di sé.
L’attenzione al lavoro clinico, ancora oggi, viene periodicamente rinnovata negli incontri riservati di supervisione che svolgo presso il “CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica“: un’associazione che da oltre 50 anni cura la formazione degli psicoterapeuti junghiani in Italia, di cui sono “Membro del Comitato Direttivo Nazionale”.
Sono Psicologo Analista abilitato alla docenza, alle analisi di formazione e alle supervisioni presso la “Scuola di Specializzazione in Psicoterapia” del CIPA riconosciuta dal MUR.
Dal 2021 al 2025 sono eletto Segretario scientifico e Direttore della Scuola di psicoterapia dell’Istituto di Roma del CIPA.
Dal 2019 sono stato iscritto nell’Albo dei docenti esterni di 1° Livello – Area C di Roma Capitale.
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