L’abuso psicologico (o abuso emozionale) rappresenta una forma di maltrattamento riferito ad un insieme di atteggiamenti del caregiver caratterizzati da elementi di rifiuto, di biasimo e denigrazione che investono il bambino, attraverso forme e modalità che lo inducono all’idea che vale poco, che non è amato, o desiderato.
L’elemento elettivo, che sottolinea l’importanza di questa forma d’abuso, è rappresentato dal fatto di essere presente – come elemento fondante – in tutte le altre forme di maltrattamento:
siano esse di natura fisica, sessuale o legate alla trascuratezza in senso più generale.
Caratteri persistenti di critica, disparità, minacce, ricatti emozionali, o in altro modo, ogni singolo segno di mancato “rispecchiamento contenitivo” da parte del caregiver, segnalano il punto attivo di un abuso emozionale.
Questa forma di maltrattamento infantile assume l’aspetto di una «costante attenzione negativa» — come dice Felicity de Zulueta — attualizzata ed inflitta attraverso svalutazioni continue, o per mezzo del ritiro o del rifiuto, quindi, essenzialmente con carenze anche estreme di attenzioni rivolte al bambino.
In special modo, ciò che rende effettivamente traumatica questa forma d’abuso, è la sofferenza in sé esperita dal bambino per il fatto di non riuscire a dare una spiegazione evidente e reale ai suoi agiti tale da poter giustificare il trattamento di cui è vittima.
Per il bambino, l’evidenza traumatica non nasce essenzialmente dal fatto di essere vittima di un maltrattamento sporadico o reiterato nel tempo, ma piuttosto l’esperienza e il vissuto stesso del trauma emozionale, si sviluppano attraverso le forme più autentiche dell’incomprensione:
la sofferenza di non poter in qualche modo comprendere o motivare in sé il maltrattamento ricevuto.
In definitiva, le relazioni umane devono finire e la minaccia di perdita, di abbandono e infine di morte è tanto più profonda quanto più profondo è l’amore: e anche questa consapevolezza contribuisce ad approfondirlo
Otto F. Kernberg Tweet
Oggi sappiamo che:
«Il conflitto e la mancanza di informazioni, vale a dire l’impossibilità per il bambino di elaborare psicologicamente quello che avviene intorno a lui o che lo colpisce direttamente, rappresentano due condizioni connesse dall’esito negativo di tali esperienze» (Paola Di Blasio).
Il senso tragico ed essenziale che si svolge nell’intimità di queste esperienze traumatiche, è da ricercare nella condizione particolarissima di violenza che stiamo osservando, perché, non solo è difficile in sé da comprendere, misurare, e soprattutto ri-conoscere, ma anche, probabilmente, perché è la forma più comune e condivisa all’interno delle matrici dinamiche della famiglia stessa.
È una condizione, questa, caratterizzata dal fatto che il trauma e l’abuso emotivo avvengono tra il bambino e il caregiver, o anche, tra la figura adulta madre/padre che sia, ed il figlio.
Il trauma in altre parole, è inflitto e perpetrato proprio da chi letteralmente dovrebbe essere il “dispensatore di cure” affettive per il bambino.
Inoltre, il trauma in sé raggiunge l’evidenza e la drammaticità di una sofferenza psichica in relazione al fatto che si consuma attraverso un’ambivalenza relazionale, risultato di una mescolanza incomprensibile di sentimenti contrastanti vissuti prevalentemente dal bambino.
Generalmente, di fronte ad una qualsiasi minaccia – indipendentemente dalla sua origine o dalla sua natura –, il bambino adotta una risposta istintiva tendente ad un allontanamento dalla fonte da cui proviene il pericolo per rifugiarsi nelle braccia protettive della madre.
Ora, il punto focale è questo: cosa succede, o cosa può realmente fare questo bambino se è proprio la madre ad essere la fonte della minaccia?
Cosa può fare questo bambino se la madre rifiuta o proibisce ogni forma di contatto rassicurante?
Per un bambino, tutto sommato, è più semplice ritenersi parte attiva nel determinare l’abuso, piuttosto che vittima innocente, perché questo farebbe crollare l’idealizzazione che faticosamente si era costruito dell’adulto e farebbe riaffiorare alla sua memoria l’angosciante passività con cui l’esperienza traumatica è stata vissuta
Cosimo Schinaia Tweet
È stato fatto notare da Cosimo Schinaia come essenzialmente queste forme traumatiche dell’odio trovano la loro forza espressiva e basilare nella seduzione narcisistica.
Sono principalmente allora, due i sentimenti esperiti dal bambino che vanno a determinare l’essenzialità dell’evento traumatico e con esso la risultante sofferenza psichica:
In maniera comprensibile esistono sentimenti e agiti contrastanti tra loro esperiti dal bambino:
sentimenti di rabbia, tristezza, delusione e paura che accompagnano comportamenti di trascuratezza, disattenzione, o non disponibilità, sono mescolati a sentimenti pieni d’amore per lo stesso genitore.
Si generano evidenti segni di tensioni, conflittualità e ansie interiori insostenibili che in una maniera altrettanto risolutiva per il trauma subito, devono essere risolti o gestiti in maniera tale da ottenere un equili- brio apparentemente stabile che possa garantire la sopravvivenza del bambino all’interno del sistema-famiglia abusante.
Alice Miller, a titolo esemplificativo, definisce il genitore maltrattante in maniera semplice ed esaustiva come il mio amato persecutore, proprio per sottolinearne la naturale ambiguità di relazione vissuta dal bambino.
Un bambino potrà vivere i suoi sentimenti «solo se c’è una persona che con questi sentimenti lo accetta, lo comprende e lo asseconda.
Se manca tale condizione, se il bambino per vivere un sentimento deve rischiare di perdere l’amore della madre […] allora non può viverli “per conto suo”, in segreto, ma deve rimuoverli.
Essi comunque rimarranno custoditi nel suo corpo, memorizzati come informazioni.» (Alice Miller)
Un bambino potrà vivere i suoi sentimenti solo se c’è una persona che con questi sentimenti lo accetta, lo comprende e lo asseconda.
Se manca tale condizione, se il bambino per vivere un sentimento deve rischiare di perdere l’amore della madre allora non può viverli “per conto suo”, in segreto, ma deve rimuoverli.
Essi comunque rimarranno custoditi nel suo corpo, memorizzati come informazioni.Alice Miller Tweet
Questa risoluzione, in termini dinamici, si dà essenzialmente attraverso il semplice processo regressivo ad una modalità di sopravvivenza narcisistica, dove è possibile scorgere evidenze di una costruzione irreale fatta di vissuti illusionali ed un pieno distacco dalla realtà obiettiva degli eventi.
I meccanismi di difesa asso- ciati a questa modalità regressiva di sopravvivenza psichica sono essenzialmente due:
la scissione (splitting) dei sentimenti di rabbia e paura esperiti nei confronti della madre “buona”, e la loro conseguente rimozione.
Allontanarsi da questi vissuti interni significa, quindi, annientare la loro esistenza:
fare come se non fossero mai esistiti.
In un ambiente non sufficientemente confortante o accogliente, in un ambiente non “sufficientemente buono”, il bambino potrà soltanto garantirsi un adattamento e una relativa sopravvivenza semplicemente annullando tutti i sentimenti di rabbia e paura
(con questo si deve anche sottolineare la condizione particolare in cui si trova il bambino per la sua totale impossibilità ad allontanarsi da questa “camera degli orrori”, perchè da questi genitori, amati e odiati al contempo, egli pure, ovviamente, dipende).
Il falso Sé che si costruisce attraverso quest’annullamento, rispecchia l’esigenza vitale di evadere dai sentimenti negativi e frustranti del bambino rivolti alla madre non accogliente.
Tali sentimenti allora, non saranno più, non soltanto espressi, ma neppure “sentiti” perché rimossi o addirittura negati:
«[…] quando le persone sono sottoposte a deprivazione, perdita o abuso, possono sopravvivere solo violentando i propri sentimenti.
Il dolore e la rabbia devono essere soppressi o negati per poter rimanere vicini a coloro da cui dipende la loro vita. […]
Se si comprende che il bisogno più pressante e dominante dei bambini di ogni età è di essere amati, si capi- sce automaticamente tutto il resto:
il bambino farà qualsiasi cosa per ottenere l’approvazione e l’affetto dei genitori, anche se ciò significa sacrificare il proprio senso di chi si è e di cosa si sente, in favore di un Sé “falso” ma approvato.» (Felicity de Zulueta)
Quando le persone sono sottoposte a deprivazione, perdita o abuso, possono sopravvivere solo violentando i propri sentimenti. Il dolore e la rabbia devono essere soppressi o negati per poter rimanere vicini a coloro da cui dipende la loro vita. Il bambino farà qualsiasi cosa per ottenere l’approvazione e l’affetto dei genitori, anche se ciò significa sacrificare il proprio senso di chi si è e di cosa si sente, in favore di un Sé “falso” ma approvato
Felicity De Zulueta Tweet
Inoltre, vista la condizione riguardante la necessità di considerarsi parte attiva nel processo di abuso ricostruita dal bambino, egli si convincerà che la responsabilità del trattamento che riceve è essenzialmente derivata da lui per qualcosa di sbagliato che ha commesso o preteso.
Per il bambino questa soluzione rappresenta pienamente la modalità attraverso cui egli può obiettivamente ritenere che una via d’uscita esiste, che una responsabilità risolutiva esiste, che egli effettivamente può fare qualcosa, o perlomeno credere di poter fare qualcosa per superare l’ansia associata al trattamento che riceve.
Per il bambino riuscire a trovare una soluzione a quest’impasse, riuscire a credere di non essere una vittima impotente, confidare nel fatto che di fronte all’evento traumatico si possa avere un ruolo attivo e di responsabilità, diventa la mera possibilità che un’effettiva risoluzione esiste, che egli può fare davvero qualcosa per far cessare questa tremenda frustrazione, visto che – convinto di essere responsabile per l’accaduto –, egli così può davvero cambiare le cose.
In fondo, questa condizione, quest’intimo «[…] bisogno di sentirsi in colpa, piuttosto che vittima impotente del destino, rivela quan- to sia profonda la necessità di proteggersi dalla totale impotenza, che è uno stato simile all’annientamento psicologico.» (Felicity de Zulueta)
Il pensiero ricostruttivo del bambino in funzione dell’evento ansiogeno e traumatico è essenzialmente questo:
“Se la mamma mi tratta così male, se lei non comprende le mie richieste d’affetto e atten- zione, non può essere per colpa sua, lei è la mamma;
questo vuol dire che quello che fa con me è giusto, è il mio bene, vuol dire che me lo merito, vuol dire che il responsabile e il colpevole sono soltanto io, vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato in me, vuol dire che c’è qualcosa di sbagliato in questo corpo.”
Vivere pienamente i sentimenti di rabbia, paura, angoscia, non è possibile.
Allo stesso tempo, essere allegri, sereni, spensierati, liberi di essere corporalmente, quando la madre non lo approva, quando lei rivede in questi stessi comportamenti di libertà espressiva la libertà che ha dovuto a sua volta reprimere e sacrificare un tempo con i suoi stessi genitori, tutto questo allora non è sostenibile, tutto questo non si può;
e poi, anche perché, come abbiamo imparato fin da piccoli, con l’obbedienza si bussa alle porte dell’amore.
Il fatto è che spesso, purtroppo, questa convinzione diventa un imperativo vitale per il bambino e tale resterà per il resto della vita.
In questo senso, rivolgendosi alla madre, potremmo intendere il vissuto interiore del bambino in questo modo:
“Ti prego mamma non mi abbandonare, me ne starò qui buono buono, farò tutto quello che vuoi tu, ma non mi sgridare, ti prego!”
Un bambino molto piccolo vedrà i genitori come creature onniscienti e onnipotenti che non sbagliano mai. Se per qualche ragione un genitore, o entrambi, sembrano rifiutarlo, il bambino penserà che è colpa sua. Dopo tutto queste meravigliose persone devono avere ragione»
Ursula Markham Tweet
In questo modo, viene non solo garantita la certezza che l’affetto e l’amore della madre e del padre non saranno perduti per sempre, ma sarà anche escogitato un modo risolutivo per fronteggiare i sentimenti d’impotenza di fronte all’abuso subìto, in maniera tale da poter così far qualcosa in senso attivo per fronteggiare e modificare gli eventi.
Questa modalità ricostruttiva dei vissuti esperenziali subiti rappresenta essenzialmente il bisogno difensivo di sentirsi in un certo senso colpevoli di fronte al trauma:
la disapprovazione, il rimprovero, le critiche reiterate da parte del genitore per il comportamento del bambino, diventano caratteri distintivi delle sofferenze emotive della vita adulta registrate attraverso un vero e proprio “tradimento del corpo”.
Se da una parte gli elementi difensivi come la negazione o la rimozione attivano obiettivamente vissuti coscienti d’insensibilità emozionale, il corpo dal suo lato “registra” ogni cosa e “sente” ogni cosa, e specie alla pubertà si farà sentire con tutta la sua forza:
«La verità della nostra infanzia è scritta nel nostro corpo — dice Alice Miller nel suo libro La persecuzione del bambino —, e anche se possiamo reprimerla non la muteremo mai.
Possiamo, certo, arrivare ad ingannare il nostro intelletto, a manipolare i nostri sentimenti, a ingarbugliare le nostre percezioni e a mentire al nostro corpo con l’assunzione di farmaci.
Una volta o l’altra, tuttavia, esso ci presenterà il conto:
il nostro corpo infatti è incorruttibile, come un bambino non ancora sconcertato sul piano emotivo che non ammette né scuse né compromessi e che cessa di tormentarci solo quando non rifuggiamo più la verità» (Alice Miller).
Ogni vita è piena di illusioni, proprio perché la verità ci appare insopportabile. E tuttavia la verità ci appare indispensabile che ne scontiamo la perdita con gravi malattie
Alice Miller Tweet
Finora abbiamo parlato in termini generali del trauma e dell’abuso emozionale, ricreando in maniera concisa quelli che sono i riflessi attivi e i tentativi interpretativi escogitati dal bambino per interpretare l’evento subito.
Ora, seguendo questi elementi essenziali, è opportuno sottolineare l’importanza di una diversificazione riflessiva in questo contesto, in modo tale da evidenziare una distinzione che non ha carattere esclusivamente descrittivo, ma si assume anche in funzione degli agiti e delle dinamiche psichiche ad essi sottesi.
Opportuno, quindi, sarebbe parlare e distinguere tra la trascuratezza emozionale, e l’abuso emozionale. Parlando di maltrattamenti emozionali possiamo, infatti, in- tendere modalità e agiti essenzialmente diversi che assumono per il bambino, a livello della relativa ricostruzione mentale assunta con riferimento all’esperienza subita, forme e interpretazioni piuttosto differenti.
Possiamo quindi parlare di trascuratezza emozionale intendendola come una carenza di vissuti o di comunicatività nell’espressione emozionale nel diretto rapporto col caregiver, ossia, una condizione in cui, per i motivi più disparati, l’adulto non manifesta, esprime o sottolinea elementi di una comunicazione che ha natura e caratteri emozionali. In questo senso possiamo intendere questa come la forma lieve delle sofferenze emozionali vissute dal bambino.
Sappiamo, infatti, che:
«Lo sviluppo della conoscenza delle emozioni — scrive Paola Di Blasio — è facilitata essenzialmente dall’osservazione delle emozioni altrui, dalla relazione che il bambino inizia a porre tra risposte emotive e situazioni che le elicitano, dalla associazione tra emozione e spiegazione verbale dell’adulto.
Soprattutto quest’ultimo aspetto sembra, più di altri, importante nell’acquisizione delle competenze emotive.»
I commenti dell’adulto, le sue interpretazioni sullo stato emozionale del bambino, la coerenza tra espressione e verbalizzazione consentono quella differenziazione necessaria alla abilità cognitiva
Paola Di Blasio Tweet
Di conseguenza il diretto risultato di queste carenze emozionali, si dà nella difficoltà stessa di acquisire delle competenze emozionali e di fare proprie le dirette esemplificazioni comportamentali associate ai vissuti emozionali più intimi.
Diversamente possiamo invece considerare, essenzialmente per quelle che sono le conseguenze in termini di una sofferenza psichica, l’abuso emozionale.
Intendiamo questa modalità della sofferenza emozionale, considerandone prevalente- mente l’aspetto “consumante”.
Possiamo seguire così la radice etimologica del termine abuso, la cui derivazione latina abuti, significa appunto ‘consumare’.
L’intento è quello di descrivere il senso stesso dell’abuso emozionale come modalità espressa dall’adulto di richiedere lui stesso un’attenzione emozionale da parte del bambino: la condizione in cui il bambino diventa elemento oggettuale, mero strumento di rassicurazione affettiva e soprattutto sensuale dell’adulto.
«[…] il bambino in tenera età ha bisogno, per sopravvivere, di ricevere dall’adulto amore, cure, attenzione e tenerezza.
Farà di tutto pur di ottenerli e non perderli.
Se avverte che le sue persone di riferimento più prossime e più importanti hanno per lui un interesse che reca, a livello conscio o inconscio, carattere sessuale allora, pur essendo reso insicuro, a volte angosciato e nei casi più macroscopici completamente disorientato, farà ogni sforzo per soddisfare tali desideri, o perlomeno per non frustrarli troppo, per non far inquietare l’adulto, per non rischiare a nessun prezzo di essere da lui abbandonato.» (Alice Miller).
I genitori conducono con i propri figli la medesima lotta per il potere, che hanno perduto a suo tempo con i loro stessi genitori.
Vivono per la prima volta, vedendo nei propri figli, lo stato di vulnerabilità dei primi anni di vita, di cui non sono in grado di ricordarsi, e soltanto con loro, con i più deboli, si difendono spesso in modo molto pesante.Alice Miller Tweet
Il trauma psicologico che si consuma in riferimento a questi processi d’interazione tra adulto e bambino mostrano essenzialmente quelli che sono i presupposti distintivi della falsa costruzione del Sé.
L’impianto stesso della crescita e del senso rassicurante dell’amore si danno in riferimento ad un vero e proprio ricatto emozionale vissuto dal bambino, e questa diventerà la regola basilare di tutte le future interazioni umane.
Se si apprende, attraverso l’interazione con le figure genitoriali che l’amore, l’attenzione, l’accudimento, si danno in funzione di un dominio delle manifestazioni più immediate dell’essere, ovvero, in funzione di una recisione profonda delle proprie manifestazioni emozionali, se si apprende che il modo “corretto” di relazionarsi agli altri – specie con gli adulti – è quello di assecondare, accontentare a qualsiasi costo, sacrificarsi in nome di un’accettazione d’amore, non si ottiene altro che una falsificazione profonda del proprio Sé.
Una menzogna che diventerà col tempo piena identificazione con questo stile di trattamento, una pura identificazione con l’aggressore, un’identificazione con quello stesso comportamento, o quel medesimo atteggiamento socialmente accettato che generalmente è definito “pedagogia” e che, a ragione, la Miller ha considerato come «Pedagogia Nera».
«Il bambino sviluppa allora quegli atteggiamenti di cui la madre ha bisogno, atteggiamenti che al momento gli salvano la vita (ossia gli assicurano l’“amore” della madre e del padre), ma che alla lunga gli impediranno di essere sé stesso.
Pur senza esserne consapevole, questo individuo continuerà in seguito a vivere immerso nel proprio passato.» (Alice Miller)
Ciò che si ottiene e si erige in nome di questo senso educativo di accondiscendenza alle figure genitoriali è essenzialmente un ripudio completo dei vissuti emozionali:
nascosti, recisi, rimossi, diventano natura inconscia per il Sé del bambino e di conseguenza per l’intero assetto psichico dell’uomo maturo, perché le sue esperienze future – come vedremo – non faranno altro che confermare questo genere di rapporto frustrante con l’altro.
L’impossibilità d’espressione, nonché la caratterizzazione dei vissuti emozionali più forti, siano essi di rabbia, paura, o anche di felicità, come non accetti, non rispettati, ma in quanto tali puniti, derisi, soffocati e alla fine dominati dall’adulto, dovranno essere ricostruiti in forme che danno responsabilità al bambino stesso – come abbiamo visto – e questo affinché possa esistere in lui un non totale annientamento psicologico di fronte alla condizione sofferta;
e allora, pur di non essere o non sentirsi all’altezza delle richieste dei genitori, questo bambino sacrificherà il suo vero Sé in funzione di un “risarcimento” dovuto ai propri genitori, un risarcimento che assumerà caratteri persistenti per tutta la vita come modello di relazione interpersonale, un “dover dare”, un “dover sacrificare se stessi” agli Altri.
Tutto questo avverrà semplicemente per ottenere finalmente quell’attenzione, quella comprensione, quel rispetto, quel riconoscimento per quello che si è e per quello che si prova.
L’uomo in età adulta farà di tutto pur di essere amato da qualcuno nel modo in cui gli sarebbe stato necessario un tempo, quando era bambino.
L’ansia stessa provata per non riuscire a soddisfare o ad interpretare a pieno le richieste affettive e sensuali della madre, in seguito, diventeranno l’ansia reiterata e protratta ed il senso di minaccia provati di fronte alle manifestazioni sensuali, erotiche o semplicemente d’affetto di una compagna o di un compagno nella vita adulta;
manifestazioni alle quali potrà rispondere o attraverso la completa accondiscendenza reiterando nuovamente la struttura stessa del proprio falso Sé come ha imparato a fare da piccolo, o con una risposta di fuga, passando così da una relazione all’altra aggirando l’ostacolo del legame incestuoso, oppure, attraverso la completa astensione da relazioni amoroso/sensuali, annientando completamente i propri vissuti emozionali e corporei.
Il bambino, nel tempo, rimane vittima impotente nel proprio passato, vittima impotente di una coazione a ripetere, risolvibile soltanto quando diventerà adulto lui stesso, e avrà a sua volta di fronte un bambino piccolo da accudire che da lui dipende e a cui potrà di converso riservare lo stesso trattamento che ha subito da piccolo.
Recidere lo spirito vitale ed emozionale del proprio figlio diventa il mero riscatto per il medesimo trattamento che i genitori stessi hanno ricevuto nella loro infanzia.
Un riscatto contro la propria impotenza vissuta da bambini, una rivalsa affinché anche altri provino le stesse frustrazioni e patimenti interiori che hanno provato loro stessi da bambini, un modo esemplare di essere, oggi, padroni e non vittime impotenti e supplichevoli del maltrattamento emozionale ricevuto.
«L’adattamento ai bisogni dei genitori conduce spesso (ma non sempre) allo sviluppo della personalità “come se”, ovvero a ciò che si definisce un falso Sé.
L’individuo sviluppa un atteggiamento in cui si limita ad apparire come ci si aspetta che debba essere, e si identifica totalmente con i sentimenti che mostra.
Il suo vero Sé non può formarsi né svilupparsi, perché non può essere vissuto.
Si capisce allora come questi pazienti lamentino un senso di vuoto e di assurdo, la mancanza cioè di un punto di riferimento; questo vuoto, infatti, è reale» (Miller, 1979, p. 20-1).
In questo senso il trauma psicologico è stato appunto definito come un’improvvisa cessazione dell’interazione umana.
La sofferenza emozionale – come abbiamo visto –, nasce e si sviluppa in relazione a complessi relazionali legati ai motivi del maltrattamento, della trascuratezza, o dell’abuso emozionale.
Evidentemente, quindi, ciò che essenzialmente accade nell’istante stesso in cui si consuma la sofferenza emozionale, è una vera e propria sospensione dell’interazione umana.
Non si entra più in contatto con un altro essere umano dotato di sensibilità, emozioni, caratteri, elementi di personalità distinte, ma si assume su questo un prodotto di piena identificazione con l’aggressore.
Se il genitore riuscisse obiettivamente a comprendere o a vedere che quello che ha di fronte non è un bambino capriccioso e indisponente, ma un essere umano che sta semplicemente chiedendo un po’ di attenzione, di ascolto, di comprensione o di sicurezza affettiva e che anche lui è dotato di sensibilità, esigenze, bisogni, paure del tutto fondate per la sua età, capirebbe che in quel momento si svolge un vero e proprio trauma emotivo;
prenderà atto del fatto che quel bambino ora non è trattato come un altro essere umano, ma è diventato, per l’adulto, un mero e semplice oggetto nelle sue mani a cui poter dire o fare – in quanto oggetto – qualsiasi cosa.
Questo tipo di patologia della relazione tecnicamente è definita anogettuale, in virtù del fatto che l’appagamento dei desideri e dei bisogni è strettamente e unidirezionalmente legato al soggetto che agisce sull’altro trasformato e vissuto essenzialmente come una cosa, un oggetto-feticcio:
il figlio che diventa feticcio della propria madre, il «figurante predestinato» – direbbe Racamier – essenziale ricettacolo dell’ideale narcisistico materno.
«Non sembrerà più così ovvio che i genitori possano sfogare liberamente la propria rabbia e irascibilità sul bambino, mentre al bambino si richiede, sin dalla più tenera età, il controllo delle proprie emozioni» (Alice Miller).
Il punto è che all’interno delle stesse condizioni d’interazione adulte, il soggetto portatore di una sofferenza emozionale, condurrà con l’altro una tendenziale coazione a ripetere del trauma vissuto da bambino.
Un esempio piuttosto esaustivo di ciò che accade all’interno delle dinamiche relazionali tra madre e figlio, lo ritroviamo nel libro Dal dolore alla violenza di Felicity de Zulueta:
«Una giovane madre single tiene in braccio la figlia che piange; si sente sconfortata e realizza che ancora una volta non c’è nessuno che la sostenga, che la faccia sentire meglio.
Senza che se ne renda conto, la bambina è diventata la fonte del suo antico dolore, vissuto una volta di più.
Deve fermare questo dolore, che si è trasformato ora nella figlia che urla.
Ma non può più riconoscerla come sua figlia.
Questa madre è tornata al tormento della propria infanzia:
la bambina è ora la sua aguzzina e la ferisce.
Le urla di bisogno della piccola fanno sentire cattiva e inutile la giovane donna, che ora non può più vedere davanti a sé la propria bambina, perché quest’ultima è diventata il “mostro” che lei stessa un tempo è stata, che doveva essere controllato e modellato a forza di botte.
Questa donna diventa la propria madre, i propri terribili genitori con cui si è identificata, così come fanno tante vittime.
Nel suo dolore rabbioso colpisce la testa della figlia finché il pianto non cessa.
Nel silenzio che segue realizza che da madre può trasformarsi in assassina: la bambina che voleva amare sembra morta.
A questo punto la psiche le viene in soccorso. Dimentica.
Scinde la memoria del passato dalla memoria di ciò che ha appena fatto alla figlia, alla bambina che probabilmente vorrebbe amare e proteggere».
La chiarezza espressiva di quest’esempio riportato ci fa intuire pienamente cosa tipicamente accade – dal punto di vista dinamico – all’interno del maltrattamento fisico-emotivo tra madre e figlio.
Evidentemente ciò che risalta è il processo di- fensivo dell’identificazione proiettiva messo in atto e a cui la madre si affida nella sua condizione di sconforto.
In termini più generali, si ha un indebolimento dell’Io e una conseguente resistenza all’emersione del rimosso infantile:
attraverso la censura difensiva di questo meccanismo di difesa dell’Io, l’emersione alla coscienza dei suoi contenuti psichici scissi e rimossi dell’infanzia, in maniera tipica ed esemplare, è completamente evitata.
La componente interessante da considerare è che:
«In questa relazione ciò che è importante è il senso di “essere tutt’uno con l’altro”, invece del senso di “estraneità” che caratterizza la proiezione pura.» (Felicity De Zulueta)
Quest’aspetto che caratterizza l’identificazione proiettiva, è molto importante all’interno del contesto di nostro interesse perché, in tema di sofferenza emozionale, questo senso dell’“essere tutt’uno con l’altro” si osserva in maniera eclatante nella convinzione della vittima di dover essere risarcita per il trattamento ricevuto nell’infanzia.
In termini dinamici quello che accade nel rapporto diadico madre-figlio è essenzialmente un processo d’identificazione proiettiva, per cui:
«aspetti non riconosciuti del Sé sono messi nel bambino, che è spinto a rappresentarli, altrimenti deve affrontare la minaccia d’annullamento, di “non esserci”.
[Il bambino] diventa l’aspetto vulnerabile odiato dei suoi genitori, che deve quindi essere controllato e “messo in riga”.» (Felicity de Zulueta)
Attraverso l’introiezione del Super-io delle figure genitoriali abusanti, nella vittima ormai adulta, si determina una condizione tipica in cui il legame relazionale, tendendo alla ripetizione del trauma nelle vesti attuali del carnefice, si sviluppa nella “rappresentazione” provocante dell’altro.
Nelle interazioni con gli altri si svilupperà nel soggetto la riprova del trovarsi vittima incompresa come è sempre stato da quando era bambino.
Farà di tutto pur di auto-confermare, attraverso atteggiamenti e comportamenti provocatori inconsci, il modello d’interazione sperimentato e divenuto ormai norma e routine nella sua infanzia (anche perché il bambino se non ha alternative di rapporto considererà come attinente alla norma il modello di trattamento o il clima che si respira nella sua famiglia).
A ragione, infatti, Otto Kernberg afferma che
«La realtà di un passato di grave vittimizzazione, come quello che deriva dalla violenza fisica o dall’incesto, può determinare in superficie la sensazione di avere diritto a un risarcimento e, a livello più profondo, l’identificazione con l’aggressore interiorizzato nel Super-io, che ricerca continuamente la situazione di maltrattamento e perpetua la condizione di vittima.»
All’interno di questa circolarità d’azione si coglie come sia decisivo il riferimento antico a cui si ascrive la dinamica relazionale attuale.
L’elemento elettivo fondamentale che muove l’intero processo difensivo della vittima di sofferenze emozionali, è effettivamente dato dalla profonda e intima ricerca di un risarcimento emozionale interiore, che tenderà, da un lato a rievocare e ricreare situazioni vittimogene passate, e dall’altra a screditare, denigrare e svalutare l’altro sotto l’accusa di un “tu non puoi capire” o “tu non mi capisci” tipico delle relazioni sensuali adulte di questo tipo.
Vittima e carnefice si mescolano allora, all’interno dello stesso soggetto, oscillando nella comunicazione con l’altro tra un categorico “tu mi devi amare!”, ad un senso regressivo d’incertezza di tipo “perché non mi vuoi amare?”.
Nell’intimo di queste condizioni rimane salda l’idea di un profondo senso di colpa che arriva dal passato:
un senso di colpa presente, oggi, per non essere stato in grado un tempo di soddisfare le richieste genitoriali o anche per aver creduto che il maltrattamento ricevuto fosse il diretto risultato di una responsabilità personale del bambino.
Tutto questo è rivissuto all’odierno in relazione ad ogni momento tipicamente simile allo stato subito un tempo.
Evidentemente l’impronta caratteristica di questi vissuti da parte del bambino comporta uno stato generale di allerta e di attivazione interna in veste tipicamente
negativa. Il bambino, infatti, si troverà nella condizione di dover essere sistemati-camente vigile e attento ad ogni segno sensibile di risposta negativa genitoriale.
La sensibilizzazione che ne deriva contribuirà sistematicamente a rendere, in funzione delle risposte genitoriali, una rettifica globale del suo modo di essere e di fare.
Atteggiamenti e comportamenti del bambino tenderanno di conseguenza a mutare e modificarsi in funzione degli stati di fluttuazione emozionale del genitore.
Per sopravvivere in un contesto famigliare in cui la sofferenza emozionale viene impartita come modello educativo, il bambino dovrà essere continuamente vigile e cauto nel chiedere attenzioni o avanzare richieste emozionali di qualsiasi genere, ed in più dovrà imparare ad interpretare gli stati sensibili del genitore abusante per garantirsi un adattamento salvifico momentaneo.
Col tempo rimarrà presente in lui l’idea che in relazione al suo modo di essere avrà dai genitori risposte caratteristiche da soddisfare in ogni momento.
In questo modo, si stabilizzerà nel bambino un vissuto interiore fatto di sensi di colpa e sentimenti di vergogna, nel generale timore di essere giudicato male dagli altri e vivere uno stato generale d’impotenza.
La reiterazione di uno stato di sofferenza emotiva nella sua ancor più importante componente d’imprevedibilità, determina nel bambino l’aspettativa generale di un pericolo imminente che si può fronteggiare soltanto con un costante e persistente stato di allerta generale.
Di conseguenza, ogni stimolo esterno assume le sembianze minacciose e negative proprio in relazione ad un senso d’abitudine che fa perdurare nel tempo il vissuto soggettivo del trauma emozionale.
All’interno di una relazione adulta questo complesso corpo della sofferenza emozionale comporterà generali disturbi nelle relazioni affettive.
L’instabilità dell’attaccamento e i relativi sentimenti contraddittori di amore e odio, renderanno evidenti i segni distintivi della paura di essere abbandonati o di essere dominati dall’altro.
Si oscillerà allora tra stati di passività-sottomissione all’altro e scatti di furiose ribellioni nel vano tentativo di recuperare una propria individualità all’interno della relazione instaurata nel segno della “dipendenza” dall’altro, ossia, nella forma idealizzante esperita da bambino nei confronti dei suoi genitori abusanti.
«Il figlio – afferma la Miller – resterà per sempre legato alla madre da sensi di colpa che lo accompagneranno per tutta la vita e da una paralizzante riconoscenza.»
Quest’educazione al senso di colpa rimane saldamente ancorata al rapporto madre-figlio come processo inscindibile di un legame emozionale profondo, che garantisce al genitore non soltanto un suo personale riscatto per il trattamento ricevuto quando a sua volta era bambino, ma anche un’immutabilità traumatica di ruoli di dominanza che si protrarrà nel tempo e attraverso le identificazioni generazionali.
In un certo senso per il genitore, persecutore emozionale del proprio figlio, è un po’ come affermare:
“Se io non sono o non posso essere appagato dalla mia vita affettiva e sensuale, non devi esserlo nemmeno tu!”.
In questo senso allora, il genitore assume le vesti di un despota che limita l’individualità figliare pur di non perdere definitivamente il proprio ruolo relazionale come momento di risarcimento emozionale infantile.
Si realizza un processo dinamico d’interazione col figlio basato sul dominio e sulla repressione.
Attraverso il maltrattamento emozionale, in fondo – come abbiamo visto – ciò che si ottiene essenzialmente è la costruzione, per il bambino, di un falso Sé, una “maschera”, che rappresenta la scena prescritta e voluta dai genitori in cambio del loro amore.
Un genitore, infatti, pur di non perdere la sua podestà, pur di non perdere oggi il controllo che grazie a quel figlio si è garantito, farebbe di tutto, persino uccidere tutte le forme espressive dell’individualità del bambino.
Decisamente è evidente come questo stato d’animo del genitore di sentirsi oggi minacciato dalla vitalità espressiva del bambino, dalla sua corporeità emozionale, diventi momento di rivalsa e impedimento per garantire e proteggere, ad ogni costo, il proprio ruolo di referente di dipendenza, ossia, di essere lui, oggi, colui dal quale l’altro dipende.
Essenzialmente è un semplice cambiamento di ruoli:
dallo stato di dipendenza e impotenza infantile, ad uno stato adulto in cui si è i referenti della dipendenza altrui.
A questo complesso di elementi dinamici che legano, si creano e si stabiliscono all’interno della deformazione relazionale tra genitore e figlio:
la condizione per cui il genitore, nel timore di perdere o di essere spodestato dal proprio ruolo dominante all’interno della relazione col bambino, senza voler comprendere o conoscere ogni elemento d’alterità – attuando in altre parole un processo difensivo tipicamente espresso dall’identificazione proiettiva –, uccide ogni forma dell’individualità e del vero-Sé nel proprio figlio.
Tutto questo avviene, in fondo, per il semplice sentore – da parte del genitore – che il figlio assume una veste d’indipendenza espressiva, una sua individualità:
si mette, quindi, attraverso il suo modo d’essere “non curante di” o con un comportamento “sfacciatamente” libero di essere se stesso, alla pari di un re.
Obiettivamente – riprendendo anche la metafora d’associazione al contesto mitologico – ciò che risalta in questo complesso, è la condizione per cui se la minaccia esiste o è esperita come tale, questo vuol dire che in quel determinato momento il bambino si è posto all’altezza del genitore, o meglio, ha permesso il distacco da lui attraverso una volontà individuale “distaccata da”, cioè non più dipendente dal genitore.
Significativamente questo stato può avvenire soltanto quando il genitore avvisa un senso di perdita della propria condizione elettiva di controllo figliare.
In altre parole, quando sente di perdere il suo ruolo di unico referente della dipendenza del bambino.
In quel momento iniziale in cui il bambino nella sua libertà, spensieratezza, vitalità, esalta questo distacco, si avviserà un processo di allarme per il genitore in cui il ruolo dominante si sta modificando.
La costruzione dinamica di tale processo, ovviamente, è protratta attraverso quel “legame con l’altro” di cui si parlava prima nella descrizione del meccanismo d’azione dell’identificazione proiettiva.
Per cui, l’essere “legato all’altro” rappresenta per l’adulto un rivivere “attraverso l’altro” le stesse sofferenze emozionali vissute lui stesso da bambino.
Di fronte ad un soggetto altro, come può essere un bambino vulnerabile e dipendente che si concede la libertà di esprimere i propri bisogni, i propri caratteri più personali attraverso l’espressività del corpo, la gioia, la spensieratezza, l’adulto rivede se stesso da piccolo costretto nella repressione educativa genitoriale sotto il timore costante dell’abbandono.
Di conseguenza, pur di non far emergere questi vissuti interiori della propria infanzia, pur di evadere i sentimenti riattualizzati legati al timore di essere abbandonato, egli scinde nuovamente la rabbia e l’ansia associata per le sue frustrazioni narcisistiche infantili e le proietta sul bambino in nome di un atto educativo.
Così facendo potrà garantirsi una buona difesa contro le sofferenze patite verso i propri genitori che resteranno per sempre totalmente amati e totalmente buoni, ed inoltre si garantirà, attraverso una mera educazione al senso di colpa del figlio, una persistenza di legame di ri- sarcimento e riconoscenza da parte del bambino che nella medesima condizione, farà di tutto pur di non perdere l’amore genitoriale.
Evidentemente, l’unica cosa che è in grado di fare un genitore per ristabilire la sua centralità di ruolo, sarà quella di uccidere o recidere ogni forma di quest’e- spressività individuale nel bambino, ogni segno di un’indipendenza che lo porti ad essere “distaccato da sé” e che gli permetta di porsi – come in questo momento –, ad un livello espressivo da lui stesso da sempre temuto, ossia, quello del suo Vero-Sé.
Espressamente il cardine esemplare dell’intero contesto dinamico che si avvisa all’interno di queste relazioni è il significato proprio dell’alterità.
L’alterità che prevede in sé il senso medesimo del distacco, del diverso da me, e che, quindi, porta con sé il senso stesso della sua possibilità d’esistenza anche senza il “me”.
Anzi, questa alterità porta con sé il suo caratteristico movimento alterante, cioè “che altera”, che rende non solo diverso mostrandosi come “apportatore di alterazione”, ma lo fa attraverso un’alterazione tipicamente emotiva: altera il mio assetto psichico iniziale, aprendo una falla al rimosso emozionale più sofferto proprio perché esiste un legame emozionale con questa alterità.
Allora, pur di non rischiare la possibile soluzione del rendere cosciente il dolore emozionale che un genitore infligge (o che rivive per mezzo dell’altro!), rinnova le sue difese psichiche proiettando sul figlio (o su una qualsiasi altra alterità diversa dal “me”) la rabbia e il dolore che rivive in sé, tutelandosi inoltre dietro il nome di un prodotto spesso repressivo ma socialmente condiviso chiamato pedagogia.
Se questo in fondo accade è essenzialmente perché questo “distacco” di cui si parla tra genitore e figlio, non è mai stato definito completamente, nel senso che il contatto di dipendenza non si riferisce tanto al figlio che ha bisogno della madre, ma espressamente dalla condizione opposta.
Il timore basilare da cui emerge l’intero contesto della sofferenza emozionale inflitta o subita è in ogni caso quello dell’abbandono.
Si parla di questo non soltanto dal punto di vista del bambino che farebbe di tutto pur di non perdere l’amore del- la madre, ma si parla anche del timore dell’abbandono che affligge – inconsciamente – la madre.
Una madre che pur di assicurarsi la vicinanza, l’affetto riflesso, o l’amore del figlio, arriva persino a non vedere la stessa sofferenza che infligge e le pene emozionali più dure che riserva al proprio bambino.
Questo non è altro che un ritrovarsi di nuovo nella situazione abbandonica che il genitore ha sempre vissuto da quando era bambino, rincorrendo per tutta la vita un “soggetto” altro (in questo caso un figlio) a cui rimanere legato per sempre.
Costringere il proprio figlio nella condizione duratura di dipendenza affinché possa lei stessa garantirsi una disponibilità d’amore che mai ha avuto modo di avere, contribuisce all’inconsapevolezza di restaurare – questa volta nel figlio – nuovamente lo stesso meccanismo d’uccisione del Sé, che nel passato ha dovuto tacitamente subire:
una madre-matrigna che per il proprio bisogno d’amore abbraccia così intensamente il proprio figlio fino a farlo soffocare!
Ogni vita è piena di illusioni, proprio perché la verità ci appare insopportabile. E tuttavia la verità ci appare indispensabile che ne scontiamo la perdita con gravi malattie
Alice Miller Tweet
In tema della sofferenza emozionale infantile, esistono diversi processi attribuzionali di responsabilità, che agiscono in senso dinamico al di sotto dell’atto reale del dolore inferto al bambino.
È vero che le considerazioni in merito all’identificazione di una responsabilità genitoriale nell’indagine della sofferenza mentale, agiscono anche su un capovolgimento di fronte della teoria classica che vede nel bambino il menzognero narratore di vissuti d’abuso delle figure genitoriali.
Indubbiamente però il nostro interesse si concentra prevalentemente sulla mera possibilità d’esistenza di una congruenza letteralmente plausibile tra il racconto del paziente vittima di abusi emozionali, e la realtà obiettiva degli eventi.
Per cui, quest’intervento ha voluto semplicemente essere un par- ticolare contributo alle trame più sottili della sofferenza infantile.
A quelle taciute sofferenze che spesso, in nome di una forma “nera” della pedagogia collettivamente riconosciuta, si rendono visibili solo attraverso la manifestazione sintomatica di una sofferenza psichica dell’adolescenza o addirittura dell’età adulta e nella scelta del proprio partner.
Momenti cardini di un’angoscia interiore che si ripercuote nel tempo e attraverso le generazioni, attraverso la circolarità di un evento traumatico che prende le mosse da un evento o da una modalità di trattamento del caregiver e diventa, col tempo e con le generazioni, un tutt’uno con la circolarità e la continuità perpetrata dell’educazione genitoriale nella veste di un trauma interiore e profondo delle nature emozionali dell’uomo.
Questo è il mio lavoro, questo è il mio impegno!
Un saluto, a presto.
Michele Accettella
Sono psicoterapeuta abilitato all’esercizio permanente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.
In oltre 15 anni ho accumulato più di 15.000 ore di lavoro in ambito clinico, come psicologo e come psicoterapeuta.
Per diventare analista junghiano, per oltre 5 anni, sono stato anch’io in terapia, poiché per conoscere l’altro è necessaria una conoscenza approfondita di sé.
L’attenzione al lavoro clinico, ancora oggi, viene periodicamente rinnovata negli incontri riservati di supervisione che svolgo presso il “CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica“: un’associazione che da oltre 50 anni cura la formazione degli psicoterapeuti junghiani in Italia, di cui sono “Membro del Comitato Direttivo Nazionale”.
Sono Psicologo Analista abilitato alla docenza, alle analisi di formazione e alle supervisioni presso la “Scuola di Specializzazione in Psicoterapia” del CIPA riconosciuta dal MUR.
Dal 2021 al 2025 sono eletto Segretario scientifico e Direttore della Scuola di psicoterapia dell’Istituto di Roma del CIPA.
Dal 2019 sono stato iscritto nell’Albo dei docenti esterni di 1° Livello – Area C di Roma Capitale.
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Il sito (www.micheleaccettella.com) rispetta le linee guida nazionali del CNOP in materia di pubblicità informativa delle attività professionali sanitarie, nel rispetto dell’art. 40 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.
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Ordine degli Psicologi del Lazio – n. 19065 dal 17/02/2006
Laurea in psicologia (2004) – Università degli Studi di Firenze
Abilitazione all’Esercizio della Professione di Psicologo (2006)
Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara
Specializzazione in Psicoterapia ad Orientamento Analitico Junghiano (2011)
CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica di Roma
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