Questo è un passaggio riportato dal prof. Massimo Cuzzolaro – psichiatra esperto di disturbi alimentari – nel suo libro Anoressie e bulimie.
Illustra, attraverso la suggestione di un brevissimo fotogramma, l’esperienza di chi avverte l’urgenza di tenere sotto controllo il proprio peso corporeo, che non deve mai superare una certa soglia limite.
Racconta delle sofferenze umane che si esprimono nel rapporto con il cibo.
Nella mia esperienza clinica con ragazze con problemi di anoressia-bulimia, sviluppata nel corso degli ultimi 10 anni, ho avuto modo di capire che le sofferenze che si esprimono nel rapporto con il cibo sono estremamente complesse.
Sono coinvolti diversi piani intimi:
desideri, emozioni, relazioni, sistemi familiari, automatismi acquisiti, consapevolezza corporea, forza mentale.
Certamente il sintomo anoressico-bulimico coinvolge la personalità intera, il modo stesso che hai di vivere tutte le cose.
Per questo riuscire a dare senso ai tuoi vissuti è estremamente complesso e difficile, ma non impossibile!
Il superamento dei sintomi anoressici e bulimici si può concretamente ottenere concedendoti la possibilità di esporti ad una onesta riflessione intima sui tuoi meccanismi interni e alla possibilità di trasformare le tue abitudini.
Ma quali sono i sintomi, le cause e il modo in cui nella psicoterapia analitica ci si prende cura dell’anoressia e della bulimia?
In questo articolo proviamo ad indagare un po’ meglio che cosa significa soffrire di disturbi alimentari – anoressia e bulimia in primis –, quali sono i meccanismi di azione implicati e, soprattutto, come ci si prende cura di queste condizioni dell’umano.
Sono Michele Accettella, psicologo, psicoterapeuta, analista junghiano a Roma. Da oltre 16 anni aiuto le persone a migliorare la qualità delle loro vite attraverso la crescita della personalità. Il mio lavoro consiste nel creare le migliori condizioni possibili — all’interno della relazione terapeutica — affinché possano svilupparsi al meglio i vari aspetti della tua personalità e conquistare con questo una maggiore soddisfazione di vita.
Partiamo da una considerazione generale, ma pur sempre utile:
mangiare è un atto ambivalente!
È un insieme di desideri intensi, necessità vitali, diffidenze, timori, castighi.
Il cibo, per questa sua specifica complessità è più di qualcosa da mangiare!
È nutrimento, ma è anche piacere. È legame: materno, familiare, sociale.
È appartenenza, identità, memoria (Cuzzolaro, Anoressie e bulimie).
Intreccia e rileva le complesse sfumature degli sconosciuti aspetti del nostro modo particolare di stare al mondo. Il corpo per questo assume inevitabilmente una valenza significativa.
Ha a che fare con la rappresentazione di sé: emozioni, sentimenti, motivazioni, intenzioni, provocazioni.
È comunicazione all’altro, è corpo espressivo, che in maniera consapevole e inconsapevole invia segnali e attende risposte.
ll corpo è la superficie sulla quale affiora la nostra alterità a noi stessi, quello che non sappiamo di essere e che sfugge al nostro controllo cosciente.
Massimo Cuzzolaro Tweet
Per tutte queste cose intrecciate tra loro, il corpo è una trama.
Una trama particolare che appartiene alle possibilità espressive dell’umano. In questo senso allora, l’anoressia e la bulimia sono modi di stare al mondo.
Non si tratta solo di sintomi, mangiare e vomitare oppure non mangiare affatto.
Si tratta di osservare una particolare modalità di rapportarsi con il cibo, poichè rappresenta l’evidenza più specifica della modalità della tua personalità di stare al mondo, di affrontare il mondo.
In questo modo, cambia radicalmente lo sguardo sul sintomo che non è più il centro esclusivo della preoccupazione terapeutica come un qualcosa da debellare o eliminare, ma sarà considerato come un segnale che indica come funziona globalmente la tua personalità!
Questo passaggio è molto importante perché la psicoterapia diventerà allora, un progetto di analisi dell’intera personalità che si è costruita intorno al sintomo e non una modalità di eliminazione diretta del sintomo, destinata al fallimento.
Ma quante persone in Italia soffronto di disturbi alimentari? Quali sono i dati statistici?
Secondo quanto riportato dal Ministero della Salute in Italia si stima siano più di 3 milioni le persone con disturbi alimentari: anoressia, bulimia, disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating).
Secondo le stime ufficiali, il 95,5% delle persone colpite dai disturbi alimentari sono donne.
L’incidenza dell’anoressia è di almeno 8 nuovi casi per 100 mila persone in un anno tra le donne, mentre per gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi.
Per quanto riguarda la bulimia ogni anno ci sono 12 nuovi casi per 100mila persone tra le donne e circa 0,8 nuovi casi tra gli uomini.
Inoltre, come riportato dal prof. Christopher Fairburn dell’Università di Oxfort (direttore del Centre for Research on Eating Disorders) l’idea che i problemi alimentari siano legati alla cultura occidentale del benessere è del tutto errata:
si sono riscontrati casi nei paesi ricchi e nei paesi poveri e, in maniera universale tra le diverse culture: dal Giappone alla Cina, dall’India alla Malesia. Inoltre, non mancano studi anche nel mondo arabo (Fairburn, Vincere le abbuffate. Come superare il disturbo da binge eating).
Questi sono i dati che descrivono un po’ il quadro generale.
Diverso però è sicuramente vivere uno stato di sofferenza che si manifesta con un disturbo alimentare.
Ma che cosa significa realmente vivere uno stato di questo tipo?
Proviamo a vedere un po’ meglio da vicino che cosa significa.
Dentro di me, immaginavo un buco nero, dal collo all’inguine, come il fondo di un pozzo buio che andava riempito al più presto.
Per questo dovevo mettere dentro del cibo, qualsiasi cosa potesse essere ingurgitata, perché la marea potesse diventare alta. Quando diventata alta dovevo invece arginarla buttando fuori questo mare di cibo che, una volta dentro il mio corpo, diventata minaccioso e mi faceva ripiombare nel panico.
Così non avevo pace né prima né dopo aver mangiato.Fabiola De Clercq Tweet
Fabiola De Clercq da oltre 20 anni si occupa di offrire sostegno e cura a quanti soffrono di disturbi alimentari. Ha fondato a Milano e a Roma i centri “ABA – Associazione Bulimia Anoressia” per la cura dei disturbi alimentari.
È un esempio importante nel panorama italiano poiché la stessa De Clercq ha sofferto di disturbi alimentari e ne ha sperimentato e raccontato direttamente sia la sofferenza, sia le possibilità di cura nei suoi libri.
Fabiola De Clercq racconta di quando iniziò ad avere problemi con il cibo in questi termini:
«Quando ho incominciato a mangiare e vomitare mi sentivo euforica, era come avere trovato il modo di rinascere ogni volta che io lo volevo.
Questo mi aiutava a liberarmi da tutte le angosce, mi sentivo padrona del mio corpo e della mia mente finalmente purificati e mi ero convinta che quello fosse un modo di vivere come un altro.» (De Clercq, Tutto il pane del mondo).
In questo racconto c’è tutto: la ricerca del piacere, il controllo sul proprio corpo e il tentativo di liberarsi dalle angosce.
Torneremo su questi temi fondamentali nel paragrafo dedicato al senso e al significato dell’anoressia-bulima (se vuoi andare subito al paragrafo clicca qui).
Per ora, quello che ci è utile considerare è che tutti i disturbi alimentari hanno un fondamento affettivo che si lega e si intreccia in maniera fondamentale a una distorsione dell’immagine corporea (parlo dell’immagine corporea tra poco, se vuoi andare subito clicca qui).
C’è da dire intanto che, di sicuro, il nostro organismo non sa distinguere tra una dieta volontaria e una carenza di cibo, per cui reagisce con gli stessi meccanismi, alla stessa maniera.
Questo ci serve per dire che il nostro rapporto col cibo viene agito in larga misura a livello inconscio, senza troppo pensare.
Pertanto, all’interno del complesso processo di relazione con il cibo viene trasferito tutto il bagaglio di apprendimenti esperenziali accumulati e vissuti nel corso della tua vita fino a oggi.
La tua relazione con il cibo, le tue specifiche modalità con le quali ti rapporti con il cibo sono esattamente l’espressione di come hanno agito e agiscono in te le emozioni vissute all’interno delle relazioni con l’altro!
Detto in altre parole, evitare di mangiare significa evitare l’intimità della relazione con l’altro!
Mangiare e poi vomitare significa darsi totalmente all’altro e poi distruggerlo per non rimanere contagiato intimamente da qualcosa di spaventoso che non si può contrallare e che destabilizza.
Detta così si rischia forse di semplificare un po’ troppo, ma credo sia utile fare lo sforzo di spostare l’attenzione dal mero sintomo (mangiare o non mangiare, mangiare e vomitare, ecc.) al modo specifico di stare in relazione con il mondo che quel sintomo vuole testimoniare.
Una modalità della relazione che inevitabilmente si porta dietro tutto il dolore indicibile che nell’intimo si prova.
Possiamo dire che nella relazione con il cibo saranno inevitabilmente coinvolte almeno 3 componenti fondamentali:
In linea generale, le persone con disturbi alimentari (anoressia, bulimia, binge-eating), condividono alcuni aspetti comportamentali significativi.
Questi comportamenti si riferiscono a specifiche abitudini che in linea di massima si possono riassumere nei seguenti punti:
Raggiungendo un peso ben al di sotto del tuo peso corporeo ideale in te si producono effetti specifici, sia fisici che psichici, come i seguenti:
In questo modo è facile intuire quali sono i centri vitali del tuo interesse quando soffri di un disturbo alimentare.
Ciò che salta agli occhi a prima vista è proprio il fatto che le aree dedicate alle relazioni con gli amici e alle attività di svago, sono del tutto assenti!
E questo, ovviamente, non è un caso.
Ma quali sono le differenze tra chi soffre di anoressia, di bulimia o di disturbo da binge-eating?
Soffrire di anoressia significa che:
In questa condizione, compaiono alcuni segni e sintomi psico-fisici generali piuttosto caratteristici:
Soffrire di Bulimia significa che:
Dal punto di vista psico-fisico i principali segni e sintomi che si presentano quando vivi una condizione bulimica sono:
Le caratteristiche che spesso sono presenti in persone con anoressia e bulimia e che possono essere definiti come segni generali di una bassa autostima e perfezionismo, sono le seguenti:
Il Binge-eating è un modo di alimentarsi con attacchi di ingordigia, circoscritti nel tempo e ricorrenti, nel corso dei quali l’eccesso oggettivo di cibo ingerito si associa all’esperienza soggettiva di non avere più il controllo del proprio impulso a mangiare (Massimo Cuzzolaro, Anoressie e bulimie).
Soffrire di disturbo da Binge-eating vuol dire che:
Generalmente i momenti in cui avverti il desiderio irrefrenabile di mangiare è quando:
Al fondo avverti tutta una serie di vissuti che hanno che fare con:
“Dopo un’abbuffata provo paura e rabbia. La paura domina in larga parte come mi sento.
Sono terrorizzata dal peso che prenderò. Provo rabbia verso me stessa per aver permesso che ciò accadesse.
Le abbuffate mi fanno odiare me stessa.
La parte più difficile dopo un’abbuffata è attendere che i suoi effetti si esauriscano. Odio sentirmi così inutile e incapace di fare alcunché.
Talvolta mi sento come se potessi letteralmente sventrare il mio stomaco e rimuovere tutta la spazzatura che ho dentro;
il disgusto e la repulsione sono immensi.
Allontanata questa idea, i lassativi sono il passo successivo.”
Fare esperienza di impulsi e desideri è vissuto come una perdita di tempo rispetto al raggiungimento di obiettivi moralmente più elevati.
Christofer G. Fairburn Tweet
Aggiungiamo alle caratteristiche menzionate 4 concetti utili per la descrizione dei vissuti legati ai disturbi alimentari:
L’immagine mentale del proprio corpo si costruisce nel corso della vita.
È il risultato di un complesso intreccio di emozioni, pensieri, esperienze, relazioni accumulate giorno dopo giorno.
Sicuramente ha una origine primaria all’interno della relazione con le persone che ci hanno accudito dalla nascita: madre, padre, ecc.
A questa base, si aggiungeranno le varie esperienze con i coetanei, le esperienze sentimentali e sessuali, nonché l’intero intreccio della cultura dentro la quale si cresce con tutti i suoi modelli trasmessi.
Tali relazioni primarie sono le fondamenta del tipo di immagine mentale del proprio corpo che uno ha (rappresentazione).
L’immagine del proprio corpo ha una base fortemente sensoriale, in quando è costruita sulle sensazioni del proprio corpo in relazione con gli altri che ci accudiscono.
È muscolare, posturale, ha a che fare con le reazioni interne al nostro corpo suscitate all’interno delle relazioni primarie.
L’immagine del proprio corpo si adegua e si modella rispetto a tutto questo, contribuendo a generare quel sentito di soddisfazione o insoddisfazione personale.
Con il perfezionarsi di questa operazione riflessiva, l’immagine mentale del proprio corpo, per così dire, si “stacca” dalla sua immediatezza corporea, dal dato sensoriale presente.
Diventa letteralmente una rappresentazione, un’immagine appunto.
L’immediatezza conoscitiva dei sensi viene lentamente abbandonata a favore di quell’immagine corporea che essenzialmente si allontana dalla spontaneità delle emozioni vitali: il piacere, il dolore, il benessere, il malessere, la fame e la sazietà.
Il corpo non è più allora la fonte della conoscenza sensibile di sé, del proprio essere nel mondo, del proprio agire e del proprio modo di relazionarsi con l’altro.
Diventa, letteralmente, un corpo-Cosa da programmare come meglio si crede al servizio del proprio ideale di perfezione.
Lo scarto percettivo di sentirti grassa quando oggettivamente non è così (visto il dato oggettivo del tuo peso), ha a che fare proprio con questo scollamento tra l’immagine del tuo corpo e il sentito emotivo vitale del tuo corpo.
Il non alimentare il proprio corpo è il modo letterale, e non metaforico, di non alimentare la propria presenza in un mondo che non interessa o che non accoglie, per cui il corpo diventa il teatro dove si vive ciò che non si può vivere nel teatro del mondo.
Umberto Galimberti Tweet
Non a caso i disturbi alimentari iniziano ad esprimersi a ridosso dell’adolescenza e la prima età adulta.
Per crescere, per raggiungere la maturità della vita adulta è necessario crearsi un proprio ideale, una propria immagine significativa della persona adulta che vogliamo diventare.
Un ideale che in qualche modo viene alimentato dal rifiuto dell’identificazione con un femminile maturo offerto da tua madre.
Massimo Recalcati, nel suo libro L’ultima cena: anoressia e bulimia, scrive che «L’essere della bulimia è costantemente un “essere nella vergogna”.»
La vergogna ha a che fare con lo sguardo, e lo sguardo è da te vissuto con profonda vergogna. È uno sguardo insopportabile.
Perché è dallo sguardo che si intesse la tua presenza. La tua presenza in quanto corpo che desidera.
Si confondono i piani. Lo sguardo allude: si confonde con il desiderio, con l’eros dell’affettività di ogni relazione, scambiandolo invece con la sessualità e il voyeurismo.
Lo sguardo allora, è pietrificante – come quello di Medusa —, uno sguardo che emotivamente ti è estraneo.
Anch’esso nutre un paradosso: nel fondo c’è il tuo desiderio di essere vista, di essere riconosciuta nel dolore che si annida nel tuo non mangiare o nel tuo mangiare-vomitare.
È lo sguardo di tuo padre che cerchi. Uno sguardo che possa da un lato dare presenza al tuo dolore, e dall’altro che possa dare sostanza e legittimità al tuo desiderare.
È la ricerca fondamentale di uno sguardo che possa definire il tuo limite. Il tuo corpo. Per legittimare e dare peso al tuo desiderio.
Mangiare per limitare le emozioni negative ha un fondamento originario: già da piccoli bere il latte calma le emozioni, distende il corpo.
Il legame tra stati emotivi intensi, anche piacevoli ed eccitanti, ed il cibo usato come calmante ed equilibrante è decisamente valido.
Sentirsi depresse, stanche o turbate può scatenare il desiderio di abbuffarsi per placare attraverso il cibo queste emozioni negative.
Poi, seguono senso di colpa, l’autocritica, il senso di svuotamento o anche il senso di rabbia e odio verso se stessa.
Il disgusto, la repulsione verso di sé dopo un’abbuffata è la conseguenza ricorrente che si verifica dopo un’abbuffata.
Le abbuffate iniziano quando sono stanca o depressa o semplicemente turbata.
Mi sento tesa, nel panico e totalmente vuota.
Cerco di mettere a freno l’impulso a mangiare, ma cresce sempre più.
L’unico modo per allentare queste sensazioni è abbuffarmi. E le abbuffate di certo attenuano i sentimenti.
Tamponano qualsiasi cosa mi abbia turbata.
Il problema è che ciò è poi rimpiazzato dal sentirmi in colpa, autocritica e svuotata (Christopher Fairburn, Vincere le abbuffate).
L’Indice di massa corporea (BMI) adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) è un modo universale di riconoscere le variazioni più o meno critiche della propria massa corporea, come indice indiretto di adiposità.
Se vuoi calcolare il tuo Indice di Massa Corporea puoi andare a questo link del Ministero della Salute.
È possibile capire come nascono i disturbi alimentari? Quali sono le origini dell’anoressia e della bulimia?
Come è facile intuire, non esiste una rispsota unica e definitiva che chiarisca le cose. Ma qualcosa lo steso forse si può dire.
Proviamo a capirne un po’ meglio quali possono essere gli elementi significativi della genesi e della natura originale dei disturbi alimentari.
L'anoressia è in realtà una forma di vita in cui il sintomo dello scarso nutrimento è la via finale tesa a comunicare il senso e il non senso del proprio esistere.
Solo nella dimensione relazionale è possibile cogliere la portata integrale, non riduttiva, del sintomo stesso.Enrico Ferrari Tweet
La ricerca ha da tempo dimostrato che il legame stretto tra eventi traumatici (singoli o ripetuti) e sintomi legati ai disturbi alimentari è simile a quello di altre condizioni di malessere (Johan Vanderlinden e Walter Vandereycken, Le origini traumatiche dei disturbi alimentari).
Questo significa pure che tutta una serie di eventi traumatici come le separazioni, i litigi dei genitori, le morti, le malattie fisiche, gli abusi fisici o sessuali, gli abusi psicologici, il bullismo, ecc. possono creare le condizioni affinché si sviluppi un disturbo alimentare.
Nell’ambito del contesto di vita familiare spesso sono presenti caratteristiche tipiche che favoriscono l’insorgenza di malesseri legati al comportamento alimentare, come per esempio i seguenti:
Questi esempi sono condizioni predispondenti che minano il desiderio e la possibilità di trovare un proprio e individuale modo creativo di stare al mondo e una possibilità di crescita.
La famiglia inevitabilmente (ma non esclusivamente) gioca un ruolo centrale nella formazione dei malesseri legati all’alimentazione.
In famiglia non esistono limiti e confini di rispetto dell’intimità: le porte sono socchiuse, gli spazi intimi non rispettati e invasi continuamente.
Tuo padre è escluso dalla relazione di coppia con tua madre e mostra atteggiamenti ambigui da voyeur nei tuoi confronti.
Sei costretta e usata come mezzo per la relazione manchevole tra i tuoi genitori, come elemento di compensazione per diventare amica-partner di tua madre e ambigua dispensatrice di soddisfazioni voyeristiche di tuo padre (Fabiola De Clercq, Fame d’amore. Donne oltre l’anoressia e la bulimia).
Per certi versi, i tuoi sintomi anoressico-bulimici sono la cura per i tuoi genitori, un estremo tentativo di fare in modo che loro prendano coscienza dello stato di profondo dolore e violenza psicologica che circola in casa.
In questo senso, sono 3 gli aspetti essenziali da considerare:
Proviamo a vedere un po’ più da vicino di che cosa stiamo parlando.
Una relazione simbiotica è una relazione tra due persone che vivono come se fossero una cosa sola, reciprocamente dipendenti l’una dall’altra.
È lo stato della relazione per cui nessuno dei due può crescere e svilupparsi poiché questo mette a rischio l’esistenza stessa della relazione.
In una immagine: é l’abbraccio soffocante di una madre “amorevole”.
Tu e tua madre vivete come foste una cosa sola: le emozioni che vive lei sono trasferite e avvertite da te e viceversa. Siete l’una il prolungamento dell’altra.
Non sei riconosciuta come una donna con un corpo tuo, con pensieri tuoi, emozioni, desideri, sogni, ecc. ma sei trattata alla stregua di un’appendice funzionale per i desideri e i bisogni di tua madre.
Questa condizione ti costringe a non crescere mai, a ritenere inutili e superflue le relazioni con gli altri, amici e ragazzi, e a ritenere che i tuoi desideri sono superficiali e inutili.
Si tratta di una condizione in cui ogni tuo tentativo di crescita, di separazione – compresa la terapia – viene costantemente minato da tutta una serie di espedienti per fare in modo che tu possa rimanere costretta a non allontanarti mai.
Non è sopportabile perdere il controllo su di te. Tua madre difende come una tigre la sua casa, alimentando il vincolo con ogni seduzione possibile, pronta a saturare tutte le domande e ad appagare tutti i bisogni (Gabriella Ripa di Meana, Figure della leggerezza).
Una caduta, una malattia, un impedimento più o meno reale sono tutte condizioni possibili che possono essere messe in atto, del tutto inconsapevolmente, da tua madre pur di ternerti legata a sé.
Per certi versi, il legame simbiotico tra te e tua madre è anche il risultato di una relazione di coppia dei tui genitori non soddisfacente o inesistente.
Nel mezzo di questa relazione con tua madre c’è una confusione che lei sembra non riuscire a cogliere tra quelli che sono i tuoi reali bisogni e quelli che sono i tuoi desideri.
Dal punto di vista organico, mangiare, per esempio, è un bisogno elementare, oggettivo. Si ha bisogno di mangiare per tenere in vita il corpo.
Il desiderio invece, ha a che fare con una particolare richiesta sottesa da una intenzionalità soggettiva che chiede una relazione con qualcosa di intimamente Altro che voglio esaudire.
Un po’ come dirsi, tra sé:
«Ho desiderio di abbracciarti mamma, per sentirmi al sicuro e sentire la mia carne pulsare. Vorrei che tu fossi lì per me disponibile. Accogliente e viva.»
Questa condizione evidenzia la tua identità con tua madre. Una configurazione – direbbe Jung – del complesso materno negativo (Jung, Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre).
In quanto figlia che vivi una condizione psichica e relazionale di identità con tua madre, la tua dimensione istintiva – ci dice Jung – viene completamente messa da parte e vengono paralizzati tutti i tuoi desideri legati alla tua femminilità.
Tutto questo avviene perché tua madre, anticipando tutto, ti sottrae tutto.
Una donna che lotta contro la madre può pervenire a una più elevata coscienza solo a rischio di compromettere i propri istinti, perché nella madre essa nega anche tutta l'oscurità, l'impulsività, l'ambiguità, l'incoscienza della propria natura.
Carl Gustav Jung Tweet
Perché mia madre agisce in questo modo, non è naturale per una mamma avere cure amorevoli per la propria figlia?
Il senso generale direbbe che è proprio così.
Purtroppo però non sempre è così.
In questa condizione, per tua madre, tu sei il partner che tuo padre non è in grado di essere.
Il sintomo anoressico-bulimico è un tentativo estremo di manifestare il soffocante disagio e la volontà di separazione che intimamente provi nella relazione con tua madre.
Tuo padre in tutto questo ha un ruolo particolare, poiché sembra non essere in grado di conservare e proteggere la relazione di coppia con tua madre. Creando un limite fondamentale nella relazione simbiotica tra te e tua madre.
In certi casi, al contrario, il sintomo anoressico-bulimico può anche essere la tua reazione ad un tentativo seduttivo da parte di tuo padre che tua madre non è in grado di disinnescare.
Il sintomo allora, diviene l’espressione di un richiamo verso tua madre di intervenire per ricreare una maggiore soddisfazione (anche sessuale) all’interno della coppia (Gabriella Ripa di Meana, Figure della leggerezza. Anoressia, bulimia, psicoanalisi).
Spesso tuo padre è assente. Distante, preso da altre cose più importanti di te. Più importanti della cura della relazione con tua madre.
Tuo padre si allontana dal tuo dolore, dall’incapacità di sentire e provare a capire che cosa cerca di urlare il tuo sintomo anoressico-bulimico.
L’ambizione di tuo padre lo rende sempre indisponibile sul piano emotivo, si aspetta grandi prestazioni e grandi impegni da te.
«Un padre che, escluso dalla relazione di coppia con la moglie, tenta di ottenere un obliquo risarcimento con atteggiamenti da voyeur nei confronti della figlia adolescente: la osserva mentre si cambia, le fa il solletico, la tocca con ogni pretesto, è allusivo, ha uno sguardo pesante che mette a disagio la figlia» (De Fabiola De Clercq, Fame d’amore).
Sei chiamata allora, a fare da terzo nella relazione coniugale tra tuo padre e tua madre.
Un ruolo cui sei costretta soprattutto quando il tuo corpo diventa sessualmente attivo, alla comparsa delle mestruazioni o al primo sviluppo dei seni, si attivano pure i desideri erotici dei tuoi genitori (Louise Kaplan, Perversioni femminili).
Il desiderio si deve annientare!
Nel tuo sintomo anoressico-bulimico allora, c’è pure il desiderio di far emergere questa consapevolezza alla coppia madre-padre.
Un modo di esprimere attravero il sintomo il bisogno di osservare la coppia genitoriale come amanti.
Un modo indiretto per chiedere anche a tua madre di poterti mostrare il piacere femminile dell’essere donna. Il piacere del corpo femminile sessualmente attivo.
Il sintomo anoressico-bulimico sottende un piano emotivo molto intenso.
Ha a che fare con il tuo rancore, tutto il tuo dolore, per non essere stata lasciata crescere secondo i tuoi bisogni e i tuoi desideri.
Esprime tutta la tua disperazione che urla affinché i tuoi desideri siano riconosciuti.
Attraverso il sintomo anoressico-bulimico esprimi tutta la rabbia nei confronti di tua madre e di tuo padre.
Una rabbia che sembra tu non possa manifestare all’esterno, ma che indirettamente esprimi contro te stessa, nel tentativo di scalfire l’immagine ideale che costantemente ti viene chiesto di incarnare dalla tua famiglia.
Il sintomo anoressico non è dunque altro che un dispositivo di allarme che si accende per segnalare un guasto in campo psichico e colpisce il sistema degli istinti in due punti nevralgici: l'istinto di conservazione e l'istinto aggressivo.
Marina Valcarenghi Tweet
Il sintomo anoressico-bulimico funziona, per certi versi, come tentativo estremo e paradossale di “curare” l’intera famiglia (come già lo intendeva Mara Selvini Palazzoli, nel suo lavoro su L’anoressia mentale).
Ovviamente – mi preme sottolinearlo – non ha a che fare soltanto con questo (sarebbe una generalizzazione riduttiva), ma include una complessità di fattori che coinvolgono la tua intimità, le tue relazioni, la tua famiglia, l’ambiente, la società, il momento storico, ecc.
Il sintomo del figlio è certamente un problema di tutta la famiglia, ma non necessariamente il sintomo è di tutta la famiglia.
Alessandro Raggi Tweet
Tra questi aspetti sicuramente un elemento essenziale ha a che fare con la specifica modalità di intendere le cose del mondo, il tuo particolare atteggiamento nei confronti della vita.
Mirando a rincorrere un ideale di perfezione, inevitabilmente sarai portata ad amplificare i tuoi processi di pensiero, soffocando per quanto possibile i tuoi vissuti emotivi, i tuoi desideri e i tuoi bisogni.
Il risultato è un effetto di estraniamento. Di distanza emotiva che si crea tra te, il tuo corpo e il mondo degli altri.
Questo processo di scollamento è pure figlio della modernità, come ha magistralmente fatto notare Louis Sass nel suo libro Follia e modernità.
In ogni atto di coscienza c'è una possibilità di estraniazione. Diventare coscienti di qualcosa, conoscerlo come oggetto, è per forza di cose diventare coscienti della sua separatezza, della sua non identità con il sé che conosce e che una persona sente essere se stesso in quell'istante.
Luis A. Sass Tweet
L’anoressia-bulimia è una malattia del corpo a causa dell’Ideale; a causa di un incollamento all’Ideale afferma Massimo Recalcati nel suo libro L’ultima cena: anoressia e bulimia.
Per quanto possono essere dolorosi, radicali, i sintomi svolgono una funzione efficace per garantire a tutto il tuo mondo (intimo e relazionale) un equilibrio che garantisce protezione e conservazione.
Anche pagandone un costo severo.
In questo senso allora, l’anoressia o la bulimia sono essi stessi la cura.
Sono l’espressione e l’effetto del tuo disagio e sono pure un tentativo di cura per non sentire il dolore.
Il tentativo di anestetizzare tutto il dolore (simile alle dipendenze da sostanze), serve per tenere in vita un particolare equilibrio di relazione con l’altro, per garantirsi un precario controllo sulla vita.
«Se mi riduco a niente, l’altro non mi divorerà» (Fabiola De Clercq, Fame d’amore. Donne oltre l’anoressia e la bulimia).
Il terrore, l’ansia, l’angoscia di essere annientata, frammentata dal dolore, la vergogna dello sguardo degli altri. La sofferenza emotiva, la rabbia, il desiderio, la paura di vivere, la paura di morire, la paura della paura.
È qui allora, il gioco paradossale dell’anoressia-bulimia: ciò che stai chiedendo attraverso il sintomo anoressico-bulimico non ha oggettivamente nulla a che fare con il cibo, va ben oltre la domanda di cibo.
Questa è la direzione di senso verso cui si muove la cura dell’anoressia-bulimia.
Vediamo un po’ meglio come funziona.
Un sintomo come il digiuno anoressico o la crisi bulimica d'ingordigia-vomito appare piuttosto come una costosa trovata, una dolorosa invenzione che persegue lo scopo di sconvolgere e conservare un assetto, un equilibrio, personale e, spesso, familiare.
Un'invenzione che fa star male ma che è anche un tentativo di autocura.Massimo Cuzzolaro Tweet
Catherine Pawley, studentessa alla University of Warwick nel Regno Unito, in uno speech al TEDx del 2016, dal titolo After anorexia: Life’s too short to weigh your cornflakes, ha raccontato della sua personale esperienza vissuta con l’anoressia.
È un racconto molto intenso, che vale la pena di ascoltare. Dura solo 18 minuti, (come vuole la tradizione dei TED Talks), dagli un’occhiata.
(* Sono disponibili i sottotitoli in italiano: clicca sulla “rotellina” delle impostazioni del video, la voce “sottotitoli”, poi “traduzione automatica” e scegli la lingua italiana).
Quello che colpisce del racconto di Catherine è quanto sia forte per lei far passare il messaggio che i disturbi alimentari non sono una scelta.
Hanno a che fare con le regole.
Con il ricevere ed aderire a tutta una serie di regole su come comportarsi, come pensare, come vivere le emozioni, ecc.
Un insieme di regole che, se rispettate, rendono semplice la vita.
Rispettare le regole significa non dovere mai decidere da sole e, soprattutto, servono per mantenere il controllo sulle cose e sulla tua vita.
In queso senso allora, mangiare per Catherine significava perdere il controllo.
Ma mangiare è qualcosa che bisogna meritare.
Lei dice ad un certo punto che tutte le anoressiche in fondo amano il cibo e che si privano del cibo proprio per punirsi.
Punirsi di che cosa? Che cosa ho fatto di male?
Punirsi del proprio desiderio.
Del proprio desiderio sotteso alla possibilità di esprimere con tutta la forza la propria genuina individualità, tutta la propria personalità al costo di infrangere il muro invisibile delle aspettative che devi incarnare necessariamente.
La tua personalità che tenta di esprimersi con tutta la sua intensità e la tutta la tua espressiva creatività.
Qui si gioca tutto. Il rischio è tremendo.
Affermare te stessa significa perdersi.
Perdere quella definizione di te come “anoressica-bulimica”.
Significa lasciar andare quell’identità sofferente, che pure è servita a creare un equilibrio particolare tra te e il mondo.
La difficoltà nasce proprio da qui.
Nella difficoltà di poterti concedere la possibilità di lasciar andare l’anoressia-bulimia, le sue regole, la tua identità di anoressica-bulimica.
Se guarisci, chi diventerai? – si chiede tra sé Catherine.
Guarire – continua Catherine – significa lasciar andare il controllo; significa esporsi al rischio di abbandonare il conforto che si prova nella sofferenza in compagnia del sintomo anoressico-bulimico.
È una trasformazione! È la tua trasformazione.
Significa credere di avere una possibilità, significa credere che vali una vita.
La vita è troppo breve per pesare i cornflaks!
Ma guarire non significa ingrassare? Non è quello che mi dicono tutti?
Qui, non si tratta di prendere peso per poter affermare di avercela fatta.
Molto più importante è raggiungere uno stato di consapevolezza in cui si può sentire che il sintomo anoressico-bulimico non ha più quel significato per te che aveva un tempo.
La tua è una domanda che sottende il desiderio dell’altro, lo dicevamo prima.
Il desiderio di una particolare relazione con l’altro.
Questo aspetto paradossale lo descrive molto bene Massimo Recalcati nel suo libro L’ultima cena: anoressia e bulimia.
In questo libro, tra le altre cose, Recalcati utilizza il concetto di fissazione per spiegare il fatto che nella condizione anoressica-bulimica si rimane sicuramente protetti, ma allo stesso tempo immobilizzati nelle “altezze” dell’immagine ideale di sé.
Questo fatto eslude totalmente la dimensione orizzontale della vita, ossia dell’esperienza.
Un’esperienza che, in quanto tale, si configura sempre nella possibilità fallimentare, di rimanere delusi, di essere vista in maniera diversa da come tu immagini.
Detta in altri termini: entrare nell’esperienza con l’altro significa fare i conti con la posibilità di tradire l’immagine ideale di te stessa.
Quell’immagine onnipotente di perfezione a cui sei legata, cui ti identifichi.
Godere dell’esperienza significata abbandonare la propria idea di perfezione e abbandonarsi al rischio umano del proprio limite e dunque della propria possibilità di fallimento.
L’ansia di controllo divora tutto lo spazio del piacere – dice Marina Valcarenghi nel suo libro L’anoressia – l’Eros è un demone sconosciuto per chi soffre di anoressia-bulimia, che si muove tra istinto di conservazione e istinto aggressivo.
La relazione viene desiderata ma allo stesso tempo si rischia di essere contagiati dalle relazioni. Di sentirne il bisogno. Di sentirsi vulnerabiuli.
«La passione fa paura perché fa perdere il controllo della situazione, ci si può lasciare andare, ci si può smarrire nell’irrazionale. Il sesso, l’amore, il cibo, il gioco, la contemplazione, il riposo attenuano la dittatura della mente, propongono una democrazia interiore dove più voci diverse generano un’armonia.
Ma se si abbassa il livello di guardia abbandonandosi al piacere sessuale, seguendo una passione sociale, perdendo la testa per un uomo, o semplicemente accettando di giocare senza altro scopo che divertirsi, allora può succedere che si indebolisca il controllo mentale lontane dal cibo, aprendo spazi al piacere e alla spontaneità anche dove è vietato.» (Marina Valcarenghi, L’anoressia).
Questa possibilità di abbandonarsi, di affidarsi all’altro – che sia il piacere, il desiderio, il divertimento, oppure il gioco, ecc. – è l’elemento essenziale e necessario della crescita per chi soffre di disturbi alimentari.
«La ricerca del controllo assoluto conduce alla dipendenza assoluta dal sintomo – dice la De Clercq – per paura di vivere si flirta con una morte che fa paura quanto la vita» (Fabiola De Clercq, Fame d’amore. Donne oltre l’anoressia e la bulimia).
Ma il dolore è altrove! Dicevamo. Non è nel cibo. È al di là del corpo.
O forse meglio: il dolore è conficcato nel corpo.
I sintomi sono l’effetto manifesto di un disagio che si trova da un’altra parte.
Questa persona ha bisogno di trovare qualcuno che riconosca il suo dolore e sia disposto ad ascoltarlo.
Che non si lascia fuorviare da ciò che lei stessa mette sotto gli occhi degli altri, un sintomo, e colga ciò che il sintomo ha il compito di occultare e di surrogare: una disperata fame d'amore, fame di rapporti autentici, fame di una vita più piena e più ricca di significato.Fabiola De Clercq Tweet
Nella psicoterapia qualcosa succede però:
«L’analista, padre e madre, diventa anche il bersaglio della propria rabbia.
“Ti odio perché ho bisogno di te!”.
Non si vede l’ora di tornare per vedere se il tuo bersaglio è ancora lì, malgrado gli attacchi ricevuti. Ed è lì, l’analista, come sempre incrollabile, per dimostrare che si può anche essere arrabbiati senza distruggere il mondo intero.
Si impara a convivere con le proprie rabbie e insicurezze, acquistando la sensazione di poter essere accettati dagli altri, o semplicemente di “essere”.» (Fabiola De Clercq, Tutto il pane del mondo).
Una mia paziente, Cassandra, con problemi alimentari, in un momento molto importante della terapia e della sua vita, mi riporta questo vissuto:
Mio padre mi fa schifo! – mi urla durante una seduta Cassandra
– mi fa schifo quando mangia, quando respira. Quando alza la voce contro tutti in casa. Quando mi tratta di merda.
Non lo sopporto più. Lo odio con tutta me stessa. Mi tratta come una stupida. Come se non contassi nulla. Ogni cosa che faccio è sempre sbagliata.
Non valgo nulla per lui. Non ha detto una parola quando sono riuscita ad avviare il mio progetto lavorativo. Lo ha visto quanto ci avevo lavorato. Ma niente, non gliene frega un cazzo!
Ieri sera non ha fatto altro che urlare, a tavola. E io lo odio.
Rimango impietrita. Immobile. Non dico nulla. E me la prendo pure con me stessa per questa mia incapacità a reagire.
Poi sono corsa in bagno e ho vomitato. Due, tre volte. Finché non mi sono liberata.
Non ne uscirò mai!
Ho pensato pure alla terapia.
In fondo non mi serve a nulla. Lei non mi capisce. Non sento che lei mi può aiutare.
Non ce la faccio. Non ne uscirò mai! – sfinita, Cassandra si lascia cadere sulla poltrona.
Dopo qualche secondo di silenzio provo a dire alcune parole:
– Eppure, Cassandra lei in questi anni è stata in grado di crearsi le opportunità di lavoro che ha oggi, di dedicare tempo, impegno, passione ai suoi progetti senza lasciarsi frenare dai commenti di suo padre o di sua madre.
In questo processo, qualcosa in lei ha agito con costanza permettendole di entrare in relazione con persone nuove, trovare nuove amicizie e sperimentare delle relazioni intime.
Soprattutto, diversamente da quanto poteva accadere qualche anno fa, le sue amicizie e le sue passioni sono diventate una parte fondamentale irrinunciabile delle sue giornate.
Io credo che tutto questo abbia pure un significato per lei, non crede? – provo a chiedere cercando di mettere a fuoco l’attualità dei fatti.
Vedo Cassandra riflettere in silenzio. È un po’ turbata in volto.
– Non avevo mai riflettuto su quanto ho costruito sino ad oggi. Sento sempre che non è abbastanza, che devo fare di più, che sono una fallita.
Tutto quello che faccio alla fine non vale nulla, non conta nulla.
Ma se ripenso a qualche anno fa, ha ragione lei, non avrei mai immaginato di poter fare le cose che ho fatto.
Le amiche che mi sono accanto e l’affetto che mi danno – ammette Cassandra, con un certo grado di orgoglio per sé stessa.
Una cosa da tenere presente: la fame è molto più forte della sazietà!
Per questo, se parliamo di “fame d’amore”, i significati dell’anoressia-bulimia acquisiscono tutt’altro sapore rispetto all’immagine del cibo in sé.
In questa ottica, proviamo a dire qualcosa allora, sul senso e sul significato possibile dell’anoressia-bulimia.
Non potendo intervenire su ciò che ci circonda e non essendo spesso capaci di affrontare l’altro, sembra più semplice prendersela con se stessi.
Il corpo diventa il luogo della rappresentazione del conflitto. Nella bulimia e nell’anoressia si cerca disperatamente di anestetizzare il pensiero e le emozioni. Si flirta con la morte nella speranza che qualcuno ci fermi.Fabiola De Clercq Tweet
Come sottolinea il prof. Massimo Cuzzolaro, nel suo libro Anoressie e bulimie, nell’ambito della cura è preferibile puntare a migliorare la qualità complessiva della vita piuttosto che adoperarsi per toccare un traguardo del peso sano.
Dopo anni di malattia, i sintomi possono diventare comportamenti abituali che si autoperpetuano, sempre più sganciati dai conflitti intrapersonali e interpersonali che avevano contribuito allo loro origine.
Pertanto, come ho accennato prima, la ricerca del piacere, il controllo sul tuo corpo e il tentativo di liberarti dalle angosce profonde sono tutti meccanismi che sottendono il tuo malessere.
Ma, a questo punto, sappiamo bene pure che il sintomo indica, non significa!
Il sintomo è come un involucro che invita alla scoperta di un disagio che si trova altrove.
Una costruzione che spesso è l’unica cosa che tiene insiene la narrazione della propria storia di vita.
È proprio l’anoressia-bulimia a definirti all’interno della storia. Senza di quella hai la sensazione di non avere un’identità vitale, un corpo che ha la sua memoria.
Il gioco che si è innescato ruota attorno alla morte, alla possibilità di esporti al rischio di perdere la vita come unica modalità che hai potuto costruire per senirti in vita.
La domanda fondamentale allora, che forse è il caso di porti è questa:
Al di là del rapporto con i miei genitori e delle mia famiglia, che cosa voglio fare della mia vita?
L’elemento essenziale su cui puntare allora, ha a che fare con la tua possibilità di entrare in relazione con i propri bisogni e i propri desideri.
Come a dire: ci vuole un compito che dia significato alla tua vita e che sia più importante rispetto al gioco anoressico-bulimico.
Se il sintomo anoressico-bulimico è la modalità di stare al mondo che hai dovuto costruire per rispondere in maniera funzionale al tuo ambiente originario, per abbandonare il sintomo è necessaria la visione di un nuovo mondo.
È necessario cominciare a considerare il tuo sintomo anoressico-bulimico con uno sguardo nuovo, come un invito a sviluppare una parte di te rimasta in ombra dietro al sintomo.
Un invito a prendere atto che una parte della tua personalità, una parte importante del tuo compito di vita, è bloccata, atterrita dal sintomo.
Il sintomo è l’espressione stessa di questo stato.
Se tutto questo acquisisce un senso per te, le domande fondamentali da porti sono le seguenti:
Cosa mi sta sfuggendo di me stessa?
Cosa sto evitando di fare o di raggiungere? Perché mi sto frenando?
Di che cosa realmente ho paura?
È inevitabile lo sforzo e forse anche la sofferenza per un cambiamento, poiché si tratta con persistenza di fare i conti con quanto di non comprensibile si vive oggi intimamente.
Lo sforzo cosciente significa concedersi il diritto di appropriarsi della vita (De Clercq, Fame d’amore).
Un diritto che sorpassa l’equilibrio conquistato attravero il sintomo anoressico-bulimico e che espone oggi alla possibilità di dare espressione alla propria personalità.
Questo è il mio lavoro, questo è il mio impegno!
Un saluto, a presto.
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Michele Accettella
Sono psicoterapeuta abilitato all’esercizio permanente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.
In oltre 15 anni ho accumulato più di 15.000 ore di lavoro in ambito clinico, come psicologo e come psicoterapeuta.
Per diventare analista junghiano, per oltre 5 anni, sono stato anch’io in terapia, poiché per conoscere l’altro è necessaria una conoscenza approfondita di sé.
L’attenzione al lavoro clinico, ancora oggi, viene periodicamente rinnovata negli incontri riservati di supervisione che svolgo presso il “CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica“: un’associazione che da oltre 50 anni cura la formazione degli psicoterapeuti junghiani in Italia, di cui sono “Membro del Comitato Direttivo Nazionale”.
Sono Psicologo Analista abilitato alla docenza, alle analisi di formazione e alle supervisioni presso la “Scuola di Specializzazione in Psicoterapia” del CIPA riconosciuta dal MUR.
Dal 2021 al 2025 sono eletto Segretario scientifico e Direttore della Scuola di psicoterapia dell’Istituto di Roma del CIPA.
Dal 2019 sono stato iscritto nell’Albo dei docenti esterni di 1° Livello – Area C di Roma Capitale.
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