Nel 2021 Gabor Maté, medico canadese esperto di cura con pazienti con sofferenze traumatiche complesse ha girato un film documentario dal titolo “La saggezza del trauma“.
In questo docufilm Gabor Maté parla di persone esposte ad eventi e relazioni traumatiche, con esperienze di abusi fisici e sessuali, violenze domestiche, denigrazioni e umiliazioni, ecc. che spesso sono subìte all’interno del contesto familiare.
Condizioni estremamente dolorose e confusive proprio perché agite dalla mano di quelle stesse persone che dovrebbero amarti e proteggerti dai pericoli del mondo.
Maté racconta le storie di uomini e di donne che per sopravvivere ad esperienze traumatiche si sono ritrovate a vivere condizioni di vita altrettamento difficili:
dipendenze da droghe, alcool, dipendenze affettive, relazioni tossiche e distruttive, relazioni violente, comportamenti disregolati, autolesionismo.
Tutte modalità che sottendono spesso lo stesso bisogno di scappare dal dolore di essere sé stessi.
Ti aspetti che qualcuno ti colpisca e ti senti costantemente minacciato.
La sensazione di disagio, di non essere all’altezza degli altri, delle relazioni, dei compiti da svolgere.
Entrare nella vita di tutti i giorni, varcare la porta di casa per andare nel mondo può essere faticoso, pesante:
ti affacci alla vita con sofferenza e fatica.
Ogni cosa, specie le situazioni nuove sono da controllare il più possibile perché la sensazione sempre presente dentro di te è quella di aspettarti da un momento all’altro che arrivi qualcosa di minacioso.
Razionalmente nulla nel tuo presente ti sta davvero minacciando, ma le tue sensazioni intime ti segnalano un rischio costantemente presente per la tua incolumità.
Bisogna sempre essere all’erta!
Per occuparti costantemente di questo stato, per tenere sufficientemente alta la soglia dell’allarme non puoi permetterti di agire “istintivamente” con autentica naturalezza seguendo semplicemente la tua personalità.
Devi disconnetterti da te stesso, poiché fa troppo male essere sé stessi .
Ci sono emozioni che non sai gestire:
quando hai delle sensazioni che istintivamente ti porterebbero, assecondandole, a compiere delle azioni autentiche non le potrai seguire perché di fatto non ti fidi di quelle.
La tua autenticità sensibile, reattiva, istintuale è messa in dubbio, ostacolata, repressa, interrotta:
non è possibile lasciare che agisca o che semplicemente ti possa attraversare come essenzialmente legittima e reale.
Questa condizione che abbiamo tradotto con l’espressione “fa troppo male essere sé stessi” restituisce inevitabilmente una condizione esistenziale di solitudine poiché, il tuo modo di essere autentico, immediato, si traduce in un “non sono degno di amare e di essere amato!”
Il trauma non è ciò che ci succede, ma quello che accade dentro di noi — ci dice Gabor Maté nel suo libro Il mito della normalità — è una ferita psichica, localizzata nel sistema nervoso, nella mente e nel corpo, che si potrae ben oltre l’evento iniziale (o gli eventi ), e può essere riattivata in qualsiasi momento.
Questo vuol dire vivere in una condizione limitata:
restare sempre vigili per “leccarti le ferite” e proteggere questi punti sensibili, limitando di conseguenza la tua capacità di muoverti flessibilmente e di agire con sicurezza, nel timore di farti di nuovo male.
La carne originaria, viva e sana, non viene rigenerata (Gabor Maté).
Ci troviamo all’interno di una condizione traumatica nella misura in cui ci rendiamo conto che per noi non è possibile condividere il nostro dolore.
Di quel sentito, di quel dolore, di quello che vorresti essere e non puoi essere, non è posibile condividerne i contenuti con nessuno:
non c’è nessuno con il quale puoi essere istintivamente autentico.
Il trauma non è solo l’evento in sé, ma anche la solitudine di non poterlo condividere con nessuno:
“Il mio dolore è indicibile!
Per sopportare le emozioni dolorose che mi attraversano a cui non sempre so dare un nome o un origine, devo disconnettermi da me stesso per poter sopravvivere.”
Alienato dal tuo istinto: questo è la condizione vissuta del trauma!
Del tutto senza consapevolezza, fuori dalla possibilità anche solo di nominare il tipo di malessere emotivo interiore che vivi, disconnetterti dal tuo corpo, da quel sentito muscolare-corporeo portatore di dolore, il meccanismo di difesa più funzionale è proprio quello della dissociazione.
Esiliando te stesso dal mondo, cerchi di esiliare il tuo dolore.
Per adattarti alla vita, per continuare a sopravvivere, nonostante i vissuti traumatici, è necessario sopprimere l’istinto.
Una disconnessione, una dissociazione che in primis è disconnessione dalla rabbia!
Una dissociazione dall’umiliazione subìta, dalla vergogna, dalla colpa, dal tradimento vissuto, dal non essere stato in grado di comprendere i gesti del tuo persecutore;
la rabbia di non aver saputo o potuto reagire, di non aver avuto nessuno che prendesse le tue difese o che ti aiutasse, riconoscendolo, a sopportare quanto vissuto.
La rabbia, quale emozione conservativa di sé, un’emozione utile per difendere sé stessi, per ricacciare l’altro al di là del la propria intimità violata, giocherà un ruolo fondamentale nella tua possibilità di cura.
Torneremo più avanti su questo tema importante e significativo della rabbia.
Vivere l’esperienza di un evento traumatico modifica il tuo modo di stare al mondo!
Soprattutto le esperienze traumatiche continuative, ripetute e prolungate nel tempo influenzeranno inevitabilmente il tuo modo di interpretare la vita, il modo che hai di gestire le relazioni (sopratutto quelle intime), la tua percezione del tempo (passato, presente, futuro), la qualità e la quantità di accesso alle tue memorie e il tuo modo di percepire la realtà:
vivere esperienze traumatiche modifica strutturalmente il tuo modo di esistere.
In questo senso, parlo specificamente di esperienze traumatiche complesse (ti spiego meglio dopo a che cosa mi riferisco).
Più in generale, gli eventi traumatici sono eventi che sopraffanno le normali capacità umane di adattamento alla vita.
Quando parliamo di trauma parliamo di esperienze straordinarie (non rare) rispetto alla tua abituale e ordinaria condizione di relazione con le cose della vita e con gli altri.
Un vissuto traumatico rappresenta una particolare condizione psico-fisica, uno stato dell’essere, che interrompe il naturale flusso della tua coscienza.
Eventi straordinari – occasionali o ripetuti – espongono la vittima di un trauma ad una condizione che supera la sua naturale capacità di adattamento alle esperienze della vita.
Il modo di reagire o di difendersi dall’esposizione traumatica che la persona mette in atto dipenderà certamente da tutta una serie di fattori oggettivi legati alla gravità del trauma stesso, fattori soggetivi individuali legati allo stato psico-fisico attuale del soggetto.
Genericmaente sono quattro i sistemi di difesa messi in atto come risposte fondamentali di fronte ad una situazione traumatica.
Le cosiddete 4 “f” del sistema di difesa:
Inevitabilmente, come puoi immaginare saranno significativi anche gli aspetti ambientali e relazionali presenti soprattutto nel momento in cui, per esempio, il carnefice è una persona a te vicina, con la quali hai un legame affettivo anche significativo.
L’effetto che un trauma può avere su di te è circoscrivibile all’interno di un complesso gruppo di vissuti e di sintomi che cambiano radicalmente la struttura del tuo funzionamento psico-fisico.
Essere traumatizzati non significa solo essere bloccati nel passato;
si tratta, più che altro, di non essere pienamente vivi nel presente.
È stata Judith Lewis Herman (nella foto) — professoressa di psichiatria alla Facoltà di Medicina di Harvard (Cambridge Health Alliance) — a tentare di introdurre una definizione di trauma che fosse qualcosa di diverso dal DPTS (Disturbo Post Traumatico da Stress) avendo a che fare, nella sua pratica clinica, con persone che mostravano sintomi particolari di un trauma subìto.
Cercheremo di vedere da vicino che cos’è il trauma complesso e quali sono i modi, in terapia, di affrontare questo particolare tipo di sofferenza psicologica.
Sono Michele Accettella, psicologo, psicoterapeuta, analista junghiano a Roma. Da oltre 15 anni aiuto le persone a migliorare la qualità delle loro vite attraverso la crescita della personalità.
Il mio lavoro consiste nel creare le migliori condizioni possibili — all’interno della relazione terapeutica — per far emergere e sviluppare al meglio gli aspetti complessi della tua personalità, conquistando con questo una maggiore soddisfazione di vita.
Ci aiuta porre un’importante distinzione tra quello che consideriamo essere un trauma semplice e quello che oggi viene definito come trauma complesso.
Il trauma semplice riguada genericamente l’esposizione del soggetto ad un evento straordinario estremo come un incidente d’auto, un terremoto, uno strupro, una grave malattia, ecc.
Quando parliamo invece di trauma complesso, in maniera più specifica, parliamo di una condizione nella quale la persona subisce per mano umana:
ripetuti atteggiamenti svalutativi, denigratori, fino ad arrivare a condotte di trascuratezza fisica ed emotiva, o a ripetuti atti di violenza e abuso (anche sessuale).
Tutto questo reso ancor più grave dal fatto che la condizone traumatica si crea all’interno di una relazione d’affetto tra vittina e carnefice (es. nel rapporto tra genitore e figlio; nel rapporto di coppia; all’interno delle relazioni famigliari, ecc.).
Per “traumi complessi” (emozionali), distinti dai traumi singoli (come incidenti stradali, assistere alla morte di una persona, episodi di isolati di violenza, terremoti e altre catastrofi naturali), si intendono dunque eventi traumatici multipli ripetuti per un tempo prolungato.
I traumi complessi sono tipicamente di tipo interpersonale (man-made trauma) — come per esempio nei casi di abusi e maltrattamenti inflitti all’interno di relazioni alle quali la vittima non può sottrarsi.
Esistono 3 gradi di traumatizzazione derivati dalla mano umana:
Il trauma psicologico è innanzitutto l’esperienza personale diretta di un evento che causa o può comportare morte o lesioni gravi o altre minacce all’integrità fisica (APA, 1994):
Il trauma psicologico, sebbene abbia un carattere di oggettiva gravità, è sempre definito in rapporto alle capacità del soggetto di sostenerne le conseguenze.
In questo senso il trauma è definito come un evento emotivamente non sostenibile per chi lo subisce e la possibilità di reagire efficacemente a una minaccia pone dunque il confine tra un’esperienza estrema e grave — ma non necessariamente patogena — e il trauma psicologico.
La vittima si trova a dover gestire una condizione rispetto alla quale, per intensistà, imprevedibilità, complessità, non può sopportare.
Sei inerme, impotente. Ti trovi in una condizione di totale sopraffazione e non esiste luogo dove puoi scappare.
In questi casi la dissociazione sarà uno dei modi istantanei per sopravvivere a queste esperienze.
Vedremo poi più avanti che cosa significa e che cosa comporta questa condizione dissociativa.
E questi elementi sono, per esempio:
Tutti questi aspetti, tutte queste condizioni e caratteristiche amplificano certamente il grado di traumatizzazione che si subisce facendo esperienza di un trauma e renderanno, in sede di terapia, più complesso l’approccio alla cura.
Ne vedremo meglio poi gli aspetti sostanziali.
Gli elementi che si rintracciamo nelle storie dei pazienti con trauma complesso sono, genericmaente, i seguenti:
3. Alterazioni della coscienza:
4. Alterazioni nella percezione di sé:
5. Alterazioni nella percezione del persecutore:
6. Alterazioni nelle relazioni con gli altri:
7. Alterazioni nei sistemi di significato:
Tutto il trauma è preverbale
Bessel van der Kolk Tweet
L’adattamento all’atmosfera emotiva di pericolo costante richiede uno sforzo importante e uno stato di allerta permanente.
I bambini in un ambiente del genere sviluppano straordinarie abilità nell’individuare i segnali di un’aggressione.
Imparano a sintonizzarsi perfettamente con gli stati interiori dei loro oppressori e a riconoscere anche i più piccoli cambiamenti nell’atmosfera emotiva, nelle espressioni del viso, della voce e del linguaggio del corpo (es.: segnali di rabbia, di eccitazione sessuale, ebrezza o dissociazione).
Questa sintonizzazione, perlopiù non verbale, diventa automatica e si realizza perlopiù al di fuori della coscienza.
In certe condizioni i bambini imparano a dissociarsi prontamente nel momento in cui le madri diventano violente.
Allo stesso modo i bambini imparano a rimanere quieti ed immobili evitando ogni espressione fisica della loro agitazione interiore.
Il risultato è un particolare stato di furiosa vigilanza congelata nota nei bambini vittime di abusi.
Se l’evitamento fallisce allora i bambini cercano di calmare chi li abusa con dimostrazioni di obbedienza automatica: “cercano di essere buoni”.
Incapace di sfuggire o di modificare una realtà insopportabile, il bambino altera la realtà nella sua mente (sia intenzionalmente, sia in maniera automatica):
Le categorie principali dei sintomi delle persone traumatizzate:
1. SOVRAECCITAZIONE
Il soggetto si trova in uno stato di allerta permanente come se il pericolo, e con esso il terrore vissuto, potesse ripresentarsi in ogni momento.
La persona traumatizzata si allarma facilmente, reagisce con irritabilità a piccole provocazioni e dorme poco.
2. INTRUSIONE
Chi ha subito un trauma rivivere l’evento come se questo continuamente si ripresentasse nel presente e non è in grado di riprendere il normale corso della vita perché il trauma ripetutamente lo interrompe.
Il tempo si è fermato in quell’istante!
Il momento traumatico si codifica in una forma particolare di memoria che irrompe spontaneamente nella coscienza sia sotto forma di flashback durante gli stati di veglia, sia sotto forma di incubi traumatici o del sonno.
I ricordi traumatici mancano di una narrazione verbale e di un contesto e sono codificati sotto forma di sensazioni vivide e di immagini. Questo conferisce alla memoria traumatica un senso di accresciuta realtà.
Il trauma arresta il corso del normale sviluppo psico-fisico del soggetto (agisce a livello strutture, determinando una personalità organizzata intorno e per effetto di tali nuclei complessuali)
Comunemente il soggetto traumatizzato si trova a ripetere alcuni aspetti della scena traumatica senza alcuna consapevolezza (le dinamiche relazionali stesse vengono ri-innescate).
Per certi versi è possibile considerare la coazione a ripetere o le idee fisse o i pensieri intrusivi come forma di riattivazione e attualizzazione del trauma:
Certamente poiché rivivere un’esperienza traumatica provoca una tale sofferenza emotiva che chi ha subito un trauma fa di tutto per evitare.
Gli sforzi stessi per liberarsi dai sintomi intrusivi aggravano ulteriormente il vissuto di dolore. Il tentativo di evitare il vissuto traumatico dà come risultato il restringimento della coscienza: un ritiro dal coinvolgimento con gli altri e un impoverimento della vita.
3. RESTRIZIONE
Alterazione dello stato di coscienza, come forma di resa, come paralisi (ottundimento, “come una bambola di pezza”).
Questi cambiamenti percettivi si combinano con un sentimento di indifferenza, di distacco emotivo e profonda passività:
la persona abbandona tutte le potenzialità di iniziativa e di lotta.
Questo alterato stato di coscienza può essere considerato come una forma di difesa naturale, una protezione nei confronti di un dolore intollerabile (un dolore che non si è in grado di soffrire ma solo di sentire).
I sintomi sono da considerare come schemi di adattamento al trauma:
Le emozioni e le reazioni fisiche sono, dal punto di vista della temporalità, “presenti” e non relative al “passato”.
I sintomi dissociativi negativi relativi ad una condizione traumatica, ricapitolando, sono dunque:
Mentre, i sintomi dissociativi positivi sono:
Quello che va tenuto a mente in maniera fondamentale è che il trauma non può essere rappresentato nella memoria verbale.
L’esperienza traumatica non può essere interpretata simbolicamente con il linguaggio e pertanto non è pensabile di poter elaborare un vissuto traumatico attraverso il linguaggio.
Questo ci segnala pure quanto possa essere ri-traumatizzante raccontare le vicente vissute o insistere sulla necessità, in terapia, di andare a ricordare eventi dolorosi vissuti nel passato:
Il trauma è presente, sempre presente:
ti abita costantemente.
La dimensione traumantica, dal punto di vista del soggetto, è qualcosa che attiene all’esperienza sensoriale, viscerale.
Pertanto tutti i tentativi di un discorso linguistico intorno a questi aspetti evocano la possibilità di rivivere il trauma come parte del racconto.
Le sensazioni e gli stati d’animo di oggi hanno un ruolo chiave nel determinare come ricordiamo un evento particolare.
Non c’è un “qui e ora” nuovo e mutevole, un autentico flusso di vita.
Ciò che vive una persona traumatizza è uno schieramento imponente di fobie, paure, sintomi fisici, malattie.
Odori, viste, suoni, e altre sensazioni associate ai ricordi possono essere disturbanti, sgradevoli, dolorosi, o repellenti, risposte che spingono il contatto intenzionale o subconscio con tutto quanto ce lo rammenti.
Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato
William Faulkner Tweet
Quando si subisce un trauma il sistema nervoso autonomo rimane attivo e disponbile costantemente per rispondere al pericolo che sistematicamente è codificato come sempre presente.
Solo all’interno di una finestra di tolleranza emozionale, compresa tra una iperattivazione (iper-arousal) e una ipoattivazione (ipo-arousal), il soggetto può sopportare certe attivazioni sensoriali-affettive.
Si passa dunque, da condizioni in cui le emozioni o le situazioni intime sono vissute e producono automaticamente reazioni:
Sul versante opposto assistiamo a situazioni per cui, di fronte ad una attivazione emotiva, un contatto intimo con l’altro, la risposta automatica che viviamo ha a che fare con:
Il risultato è uno stato di dissociazione e un collasso implosivo di sé.
Il meccanismo della dissociazione è la fuga quando non c’è via di fuga
Frank Putnam Tweet
«La dissociazione è una funzione normale della mente che esclude dal campo della coscienza stati di sofferenza intollerabili, legati a realtà interne ed esterne;
è un meccanismo di sbarramento che mette al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di stimoli dolorosi, come quelli di origine traumatica.
Il suo scopo è quello di proteggere l’Io, in tutte le fasi evolutive, per mezzo dell’alterazione dello stato di coscienza ordinario tramite un processo inibitorio attivo di informazioni intollerabili e sopraffacenti, e la costruzione di una realtà parallela più favorevole, in cui trovare rifugio.»
Questa è una definizione che Vittorio Lingiardi e Vincenzo Caretti scrivono nella Prefazione all’edizione italiana di un testo importante di Philip Bromberg dedicato alla Clinica del trauma e della dissociazione.
Parlare di dissociazione psichica significa considerare il fatto che la nostra mente è in grado di distaccarsi affettivamente dall’esperienza presente come meccanismo di difesa in grado di metterci a riparo dalla frammentazione e dall’angoscia della dissoluzione.
Questo meccanismo di protezione della mente è necessario per riuscire a sopravvivere di fronte a situazioni vissute come emotivamente intollerabili.
Il rischio che viene percepito è l’angoscia della distruzione di sé, la frammentazione della propria identità:
la tua mente è costantemente immersa in uno scenario di guerra.
Trovandoti in una condizione esistenziale di guerra il tuo andare nel mondo, le tue relazioni, le tue conquiste, ecc. ogni cosa che sei chiamato a vivere ha questo fondo, sei immerso in questa atmosfera:
è “come se” ti trovassi costantemente a vivere dentro una condizione esistenziale di guerra, assumendo quindi, un assetto di sopravvivenza.
Se queste sono le condizioni che abitano il tuo universo psichico, il tuo scenario mentale, questo significa che avrai necessariamente bisogno di equipaggiarti adeguatamente per affrontare la guerra.
Dovrai proteggerti, dovrai alzare la guardia, dovrai aumentare il tuo livello di attenzione verso gli altri e verso le cose, verso le esperienze che sei chiamato a vivere o che desideri vivere.
Tutto diventa tremendamente faticoso perché sei costantemene in allerta, con gradi di intensità più o meno acuti.
Soprattutto le esperienze nuove diventano veicolo di allarme e indecisione.
Tremendamente angoscianti in certi momenti.
Attiivtà queste che non scegli di vivere deliberatamente e intenzionalmente, ma sono il fondo istintuale-elementare su cui appoggia tutta la tua vita psichica cosciente.
Ma, in parole semplici, che cos’è questa dissociazione psichica?
Con parole molto essenziali possiamo dire che uno stato di dissociazione ci accade quando la nostra mente per difenderci dall’esposizione troppo intensa ad un tipo di esperienza reale attuale (o per associazione) sospende il suo contatto cosciente con l’insieme delle esperienze che sta vivendo.
Il punto qui è da precisare, perché è molto importante:
l’evento reale non è traumatico di per sé (anche per le esperienze più terribili).
Un evento diventa psicologicamente traumatico in virtù della condizione attuale della tua personalità.
Diciamo allora, che un evento diventa traumatico – in grado cioè di modificare strutturalmente il funzionamento di base dei tuoi sistemi interni autonomi(inconsci) -, in base alla condizione psico-fisica nella quale ti trovi.
Per cogliere visivamente questo processo ci aiuta la “teoria generale dei complessi” di Jung:
dobbiamo immaginare la nostra psiche come un insiene di “bolle” (che Jung chiama complessi) ognuna delle quali rappresenta un’unità minimale di tipo bio-psico-sociale di ciascun contenuto psichico, tenuto insieme dal medesimo tono affettivo, dalla stessa qualità affettiva.
Per fare degli esempi che ci aiutino a capire:
quando elabori un pensiero, registri un’emozione vissuta, oppure ti viene in mente un ricordo, un’immagine estratta dalla tua memoria, ecc. questo contenuto ha un suo tenore affettivo.
Quel pensiero, quell’emozione, quell’immagine, quella sensazione, insomma: qualsiasi contenuto psichico è dotato di un sua particolare e specifica qualità affettiva.
L’affetto contraddistingue la qualità soggettiva di ogni contenuto psichico.
Pertanto, contenuti psichici diversi si legano tra loro in unità bio-psico-sociali (complessi) sulla base della condivisione del medesimo gradiente affettivo che li lega.
Quando oggi vivi un’esperienza di gioia, per esempio, il tenore affettivo di questo momento vissuto, in maniera analogica e associativa, solleciterà l’attivazione e la stimolazione di contenuti psichici simili sul piano affettivo.
Provo a condividere un esempio tratto dalla mia esperienza clinica per capire meglio questo aspetto fondamentale.
Mario è un mio paziente di 37 anni, originario del sud Italia, che seguo da due anni per un disturbo alimentare di obesità e distubo dell’immagine corporea.
Ha un rapporto complicato col cibo che diventa lo strumento elettivo per ristabilire rapidamente equilibri emotivi interni quando vive momenti di frustrazione.
Si dispera: in quei momenti perde il controllo di sé. Non è più presente a sé stesso, non riesce più a pensare e il cibo diventa lo strumento conosciuto e abituale per riconquistare un luogo di pace interiore e consolazione di sé.
Mi racconta un giorno di un episodio capitato durante la settimana. Veniva da due giorni di fatiche per le mille cose da fare vivendo da solo:
la casa da sistemare, la madre da rassicurare da quando il padre è morto, il lavoro da fare al meglio per rispettare le richieste del capo, il cane da portare fuori, le lavatrici da stendere, la spesa da fare, la cena da preparare, le calorie da rispettare, la nutrizionista da non deludere, la scorta di mozzarelle di bufala da conservare perché così morbile e piacevoli alla bocca.
La mattina poi, al lavoro, riceve l’ennesima strigliata ricevuta dal suo datore di lavoro per la sua lentezza nello svolgere le mansioni e la sua incapacità di apprendere velocemente le nuove procedure assegnate.
Lui risponde sommesso, ma pieno di delusione, di rabbia, di vergogna e confusione nella mente: sente le parole del suo capo nella testa come urla di rimprovero.
Chiude e stringe gli occhi così come i pugni stretti in mezzo alle gambe e si dondola un po’ avanti e indietro sulla poltrana.
Come quando era bambino. Tra le urla di disprezzo del padre atleta che lo spronava a fare sport per quanto era “grasso e schifoso”, e la madre che lo accarezzava colludente e ambiguamente ammaliante facendolgi da mangiare qualcosa di buono.
E’ pieno di rabbia, vergogna, indecisione, paura, ambiguità che disorienta completamente la sua mente. Non è in grado di pensare a nulla.
E’ tornato di corsa a casa dopo il lavoro frustrato, triste e disperato.
“Non mi accorgo di nulla dottore – mi dice -. Sono rientrato a casa ma non riuscivo proprio a capire come mi sentissi. So solo che le mozzarelle di bufala mi hanno aiutato.
Ne ho mangiate tre o quattro di fila, voracemente. Non ricordo bene; fino a quando non sono stato male con lo stomaco. Avfrei continuato ancora se avesi potuto.”
La testa bassa, guarda il pavimento come a cercare un sentiero rassicurante tracciato tra le fughe del gres porcellanato.
Passano alcuni secondi di silenzio. Poi gli chiedo che tipo di sensazione vive in momenti simili dopo aver mangiato in quel modo, quale può essere la funzione del cibo in quei momenti.
Lui mi lancia uno sguardo fugace, un misto tra una frecciata aggressiva e vergogna di sé. Riflette per qualche secondo poi dice:
“L’effetto che mi da il cibo in quei momenti è uno stato di consolazione dottore. Una pace. Mi scarica il corpo. Mi aiuta a ritrovare la tranquillità, mi aiuta a scacciare i pensieri brutti.”
Mi colpisce la scelta della parola “consolazione” che Mario usa per descivermi qual è la funzione del cibo in quei momenti:
il tipo di gratificazione che ottiene nel ridurre, attraverso il cibo, la frustrazione e il disagio emotivo, è “consolatorio”.
Non “appagante”, non “soddifacente”, non “saziante”, non di “godimento”, ma “consolatorio”.
Il termine usato da Mario mi spinge a pensare, per associazione, alle “consolatrici” (lamentatrici) descritte da Ernesto De Martino nei suoi viaggi nel sud Italia degli anni cinquanta:
donne che avevano il compito di portare consolazione al dolore di una famiglia colpita da un lutto, attraverso la loro presenza e le loro “lamentazioni” per sostenere insieme l’impatto emotivo del lutto subìto.
Consolare qualcuno (o sé stessi) significa farlo uscire dalla condizione della solitudine nella quale si trova;
consolare qualcuno (o sé stessi) significa ripristinare la presenza a sé stessi e scongiurare la persistenza dell’angoscia vissuta e ripristinare uno stato di presenza nel mondo, di essere in connessione con gli altri.
Consolarsi significa, al fondo, ripristinare la connessione col mondo e con gli altri.
Accenno qualcosa di questi pensieri a Mario: del rapporto tra il cibo, la consolazione, la solitudine, l’angoscia, la morte.
Piange. Ricorda il padre morto da un anno, così amato, così odiato. Odia sé stesso per questo. L’ambiguità è difficile da sostenere.
Patirla è l’unica via per accedere ad un atteggiamento diverso, più complesso, più ampio. La serenità per Mario, oggi, passa da qui.
Quando Mario vive l’ambiguità emotiva di un’esperienza, affettivamente, automaticamente si attiva per analogia un agglomerato complesso di contenuti psichici connessi tra loro dal medesimo nervo affettivo.
La portata di questa attivazione se diventa insopportabile per la tua coscienza subentra la dissocazione come meccanismo di difesa:
Ci dice Jung:
«Il complesso traumatico porta a una dissociazione psichica. Il complesso non soggiace al controllo della volontà, ma possiede autonomia psichica.
Questa autonomia consiste nel fatto che il complesso può manifestarsi indipendentemente dalla volontà e mostrarsi persino in aperto contrasto con le tendenze coscienti, imponendosi tirannicamente alla coscienza.
L’esplosione di un affetto è in un certo qual modo un attacco su tutta la linea della personalità: l’individuo è sopraffatto come da un nemico o da un animale feroce.
Molte volte ho osservato che nel sogno l’affetto traumatico tipico è rappresentato da un animale feroce e pericoloso: un’illustrazione adeguata della sua natura autonoma quando scisso dalla coscienza.
( Carl G. Jung, Il valore terapeutico dell’abreazione )
Questo processo diventa difficile da cogliere o gestire:
liberarsi dalla tirannia di un complesso che assume il dominio della tua mente e della tua capacità di pensare o, come nel caso di Mario, di poter essere presente alla vita, significa sviluppare la coscienza di sé e della propria personalità per avere la forza di patire umanamente la natura ambigua dell’umano senza subirne i limiti e le conseguenze esistenziali.
A questo punto ha senso chiedersi:
come si fa a superare un trauma? E’ davvero possibile?
Proviamo a rispondere a queste domande.
A fronte della reiterazione di una condizione relazionale vissuta in senso traumatico si stabilisce uno stato psico-fisico strutturale stabile di continuo allarme interno.
Come abbiamo visto, in una condizione traumatica complessa, una parte della tua personalità, il modo particolare di funzionare della tua personalità, si esprime attraverso un costante stato di allarme (più o meno evidente) accompagnato da un ricorso alla dissociazione ad ogni sollecitazione emotiva vissuta come minacciosa per la tua incolumità.
Come si può allora ripristinare uno stato di armonia interna, un grado sufficiente di fiducia nell’altro, come si ripristina quella forma di pacificazione dialogica con sé stessi per avere la possibilità di stare al mondo senza vivere costantemente nell’angoscia?
All’interno di una buona relazione terapeutica, affettivamente valida e sufficientemente dotata di fiducia, hai la possibilità di aprirti alla tua esperienza interna, in presena di qualcuno, senza corre il rischio di essere sopraffatto.
Hai la possibilità di permettere alla mente di focalizzarsi sulle sensazioni e nel notare come, in contrasto con l’esperienza senza tempo e sempre presente del trauma, le sensazioni fisiche siano transitorie e rispondono a modifiche posturali anche minime, ai cambiamenti nel modo di respirare e ai mutamenti del pensiero.
Si tratta di famigliarizzare meglio con la propria interocezione: conoscere sé stessi a partire dall’auto-osservazioen di sé e da una maggiore consapevolezza sensoriale.
Il trauma stabilisce una distanza, una rottura nella sincronia della sintonizzazione psico-fisica con te stesso.
Liberarsi di uno stato traumatico significa avere coscienza del tuo mondo interno e accogliere ogni cosa di te.
Le parti più fragili, inette, spaventate, tristi, infantili, desolate del tuo mondo interno sono isolate dalla vita e sono pure costantemente tormentate dalla parte della tua persoanlità adulta che non può accettare debolezze.
Si tratta di un vero e proprio processo di umanizzazione.
Questo processo relazionale e intrapsichico inizia con un modo particolare che io, come analista, adotto facendo funzionare la mia mente in un modo particolare.
Lo descriveva bene negli anni novanta Emanuel Hammer — psicologo americano — quando scriveva:
«La mia postura mentale, come la mia postura fisica, non è quella di sporgermi in avanti per cogliere agli indizi, ma di appoggiarmi all’indietro per lasciare che l’umore, l’atmosfera vengano a me per ascoltare il significato tra le righe, per sentire la musica dietro le parole.
Quando ci si lascia trasportare dal ritmo affettivo della seduta del paziente, si possono percepirne il tono e le sottigliezze.
Essendo in questo modo maggiormente aperto a entrare in risonanza con il paziente, trovo immagini che si formano nelle mie zone creative; un’immagine si cristallizza, riflettendo l’esperienza del paziente.
Ho avuto la sensazione, in quelle occasioni, che nei momenti in cui raccoglievo alcune immagini dall’esperienza del paziente, lui era particolarmente maturo per ricevere le mie percezioni, così come io lo ero per ricevere le sue.
Sembrava essersi stabilito un canale empatico che portava il suo stato o la sua emozione verso di me attraverso una sorta di wireless affettivo. questo canale, a sua volta, riportava la mia immagine a lui, mentre era aperto a un tipo speciale di ricettività.»
Non si tratta di interpretare i contenuti o i vissuti del paziente:
si tratta di accogliere e favorire l’emersione di contenuti, stati affettivi, immagini, ecc. significativi per il paziente per riconnettere il suo stato psico-fisico con il momento presente in un modo più autentico e non minaccioso.
Già nel 1930 Jung affermava di osservare le dinamiche della psiche con uno sguardo particolare, volto al futuro e al divenire delle cose:
«[…] il domani è praticamente più importante dello ieri, e il “da dove” è meno essenziale del “verso dove”.
Pur con tutto il rispetto per la storia, mi sembra più importante per la vita il significato che le si deve dare, e sono convinto che nessuna comprensione del passato e nessuna reviviscenza, per quanto intensa, di reminiscenze patogene possa liberare l’uomo dal potere del passato quanto la costruzione del nuovo.
Mi rendo ben conto che senza una chiara visione del passato e senza integrazione d’importanti ricordi che sono andati perduti non si può creare qualcosa di nuovo e di vitale.
Ma ritengo che lo scavare nel passato alla ricerca di presunte cause patogene specifiche sia una perdita di tempo e un pregiudizio ingannevole;
perché le nevrosi, qualunque sia stata l’occasione che le ha originate per la prima volta, sono determinate e sostenute da un atteggiamento errato sempre presente che, una volta riconosciuto, deve venire corretto oggi e non nell’infanzia.»
( Prefazione a W. M. Kranefeldt, “La psicoanalisi” )
Avere la possibilità di riconnettersi con “sé stessi”, significa “affermare sé stessi” e la propria soggettività in tutte le sue forme (nobili e meno nobili);
significa avere la possibilità di “presentarsi al mondo” con tutte le caratteristiche specifiche che contraddistinguopno la tua personalità.
Questo implica un processo di conoscenza di te stesso, del tuo mondo interno, delle tue fragilità, della possibilità di mettere a fuoco meglio le forme e le figure del tuo mondo interno per poterle riconoscere, accettare e rinunciare al conflitto con esse.
Questo è il mio lavoro, questo è il mio impegno!
Michele Accettella
Sono psicoterapeuta abilitato all’esercizio permanente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.
In oltre 15 anni ho accumulato più di 15.000 ore di lavoro in ambito clinico, come psicologo e come psicoterapeuta.
Per diventare analista junghiano, per oltre 5 anni, sono stato anch’io in terapia, poiché per conoscere l’altro è necessaria una conoscenza approfondita di sé.
L’attenzione al lavoro clinico, ancora oggi, viene periodicamente rinnovata negli incontri riservati di supervisione che svolgo presso il “CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica“: un’associazione che da oltre 50 anni cura la formazione degli psicoterapeuti junghiani in Italia, di cui sono “Membro del Comitato Direttivo Nazionale”.
Sono Psicologo Analista abilitato alla docenza, alle analisi di formazione e alle supervisioni presso la “Scuola di Specializzazione in Psicoterapia” del CIPA riconosciuta dal MUR.
Dal 2021 al 2025 sono eletto Segretario scientifico e Direttore della Scuola di psicoterapia dell’Istituto di Roma del CIPA.
Dal 2019 sono stato iscritto nell’Albo dei docenti esterni di 1° Livello – Area C di Roma Capitale.
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