La felicità non è soltanto questione di sentirsi bene.
Se così fosse, le persone che fanno uso di droghe sarebbero le più felici al mondo.Steven C. Hayes Tweet
Partiamo da una considerazione importante:
noi siamo costantemente immersi nel mito della felicità.
L’evoluzione dell’umanità ha modellato il nostro modello di strutturazione del pensiero per cui vige una regola imprescindibile: prendi di più e migliora!
Questa equazione corrisponde evolutivamente a tutta una serie di comportamenti che abbiamo acquisito nel corso dello sviluppo dell’umanità e che si sono rivelati utili alla conservazione della specie.
Questi comportamenti possono essere sintetizzati in queste 3 equazioni:
Sulla base di questi elementi strutturali arcaici poggia il modo di agire dell’uomo, del suo modo di stare al mondo e, per quanto possa ritenersi evoluto, funzionano ancora oggi.
La concezione su cosa ci serva per essere felici sembra essere schiacciata radicalmente sul mero parametro quantitativo.
Come a dire: di più è meglio!
Da questa visione ovviamente è stato sottratto un elemento imprescindibile, un elemento di fondamentale importanza per avere la possibilità di vivere una vita felice:
la soddisfazione personale.
Quei modelli di comportamento non hanno nulla a che fare con la soddisfazione personale, poiché una volta raggiunti gli obiettivi quantitativi richiesti, offrono sì un certo grado di soddisfazione e di gratificazione, ma purtroppo durano solo per un po’.
Inevitabilmente, questa modalità del comportaento umano è strutturata in maniera tale da metterci sempre nella condizione di soffrire psicologicamente!
Harris osserva che per rimanere sempre nella posizione del “prendi di più e migliora” bisogna essere impegnati in tutta una serie di operazioni tipiche:
Non c’è da sorprendersi che per l’uomo sia difficile essere felice!
Tutto questo, è bene dirlo, non significa cadere nell’opposta visione di ritenere che ogni cosa che non siano orientate alla soddisfazione personale è inutile e superflua.
O anche considerare il lato quantitativo delle cose come un puro inganno da demonizzare.
Come vedremo, la dimensione soggettiva e il dato oggettivo delle cose hanno bisogno l’uno dell’altra per far funzionare bene la tua vita.
Una felicità declinata in un modo specifico che non si riferisce minimamente all’idea di successo cui siamo abituati a pensare (almeno non totalmente!).
Per tutto questo c’è un aspetto che, nel bene e nel male, si introduce inevitabilmente e che è giusto considerare.
Una vita piena include tutto il ventaglio possibile delle emozioni umane. Comprese le emozioni dolorose.
In questo senso allora, sicuramente la felicità non ha nulla a che vedere con uno stato di benessere perenne, svuotato dai dolori e dalle preoccupazioni.
Ma quali sono gli elementi fondamentali senza i quali è impossibile vivere una vita felice e soddisfacente?
A questa domanda cerchiamo di rispondere partendo dai 5 fattori fondamentali per raggiungere la felicità interiore secondo Carl Gustav Jung.
La felicità non si può ottenere attraverso idee preconcette, bisognerebbe dire piuttosto che è un dono degli dèi. Viene, poi va, e ciò che ci ha reso felici una volta non è detto che ci renda felici la volta successiva.
Carl Gustav Jung Tweet
Durante un’intervista del 1960, in occasione del suo 85° compleanno, alla domanda su quali fossero gli elementi che fanno la felicità, Jung elenca 5 fattori fondamentali per la felicità interiore dell’uomo.
Questi 5 fattori sono:
Gli ingredienti secondo Jung di una vita felice dunque, mirano ad un equilibrio tra corpo, mente, relazioni, sensibilità, sostenibilità materiale, lavoro, visione personale sulla vita.
Tutti questi fattori, è bene sottolinearlo, hanno un significato ed un valore se esiste una riflessione onesta e intima con sé stessi che possa davvero far inquadrare onestamente come stanno funzionando o meno questi fattori nella tua vita quotidiana.
Senza un punto di vista osservante, senza un sé osservante che offre uno sguardo per così dire dall’alto, non è possibile alcuna valutazione di sé.
Se non esiste uno sforzo riflessivo che prova ad offrire verso noi stessi una visione di osservazione su come stanno davvero le cose, è difficile riuscire a migliorare il proprio grado di soddisfazione personale.
È necessaria una profonda e temeraria onestà per dire a sé stessi qual è il proprio stato attuale e come stanno andando davvero le cose.
Proviamo a definire un po’ i contenuti di ognuno di questi 5 fattori fondamentali definiti da Jung.
L’attenzione spesa per il proprio benessere fisico, inevitabilmente anche derivato da uno stile di vita adatto al proprio fisico, al proprio limite umano, al proprio temperamento, alla propria età, alle proprie inclinazioni e passioni, è un fattore determinante per la felicità.
Questo aspetto ha un valore fondamentale soprattutto in funzione di come il corpo esprime ciò che non è ancora confessabile a sé stessi.
«Il corpo ci serve spesso per personificare la nostra ombra» afferma Jung (Seminari di Basilea).
Che cosa significa?
Significa che spesso i sintomi corporei o i malesseri fisici che vivi (o anche in certe condizioni gli stessi incidenti che ti accadono) sono la manifestazione di un disagio che non si può esprimere con altro linguaggio.
Si tratta di una modalità appresa per gestire conflitti interiori, memorie traumatiche o anche, per evitare di compiere particolari azioni di cambiamento.
Il dolore è troppo denso per accedervi con uno stato di consapevolezza maggiore e avere la possibilità di chiarire a se stessi come stanno davvero le cose.
Prendersi cura del proprio corpo allora, significa prendersi cura di sé, e questo vale anche per i relativi malesseri psichici.
In tutte le creature viventi la capacità di soffrire è direttamente proporzionale al loro livello nella scala evolutiva e ciò vale soprattutto per le sofferenze psichiche
Konrad Lorenz Tweet
Dallo studio longitudinale di Robert Waldinger condotto ad Harvard, citato in apertura a questo articolo, è sicuramente emerso che le buone relazioni sono alla base della felicità umana.
3 sono le specifiche di base:
Le persone che se la passano meglio sono quelle che hanno investito in famiglia, amici e comunità.
Una vita serena è basata dunque, sulle buone relazioni intime.
Relazioni intime significative, nel matrimonio, in famiglia, nella amicizie, significa costruire e vivere relazioni salutari, emotivamente valide e generative di stimoli, sostegno, reciprocità, ascolto, apertura, trasformazione, condivisione.
Relazioni dunque emotivamente valide e positivamente durature.
Questo è un punto molto interessante che sostiene Jung quale fattore fondamentale per la felicità interiore dell’uomo:
la capacità di percepire la bellezza!
Che cosa significa? Perché un fattore fondamentale per la felicità dell’uomo ha a che fare con la bellezza?
Il valore centrale che Jung vuole assegnare alla bellezza, o meglio l’invito per ognuno di noi a coltivare la particolare capacità di percepire la bellezza intorno a noi, ha a che fare con l’estetica.
Ma che cosa c’entra l’estetica? Che vuol dire?
L’estetica di cui parla Jung non ha niente a che vedere con il bello della moda o della cosmetica, ma punta l’attenzione verso la capacità percettiva dei sensi di percepire le cose intorno a noi.
Non si riferisce all’abbellimento, all’ornamento o alla decorazione.
Ha a che fare con la “bella forma” delle cose. La capacità di intercettare la piacevolezza delle forme delle cose.
Ma non tanto per circondarsi di cose belle (almeno non direttamente), quanto di affinare le nostre capacità sensoriali di cogliere la bellezza elementare delle cose.
A cosa serve tutto questo?
Questa capacità di saper riconoscere, secondo la nostra particolare sensibilità, che cosa è per noi bello e piacevole, serve ad orientare al meglio le nostre scelte, per distinguere ciò che ci fa stare bene da ciò che non ci fa stare bene.
James Hillman, il grande analista statunitense (fondatore della psicologia archetipica) definisce egregiamente questo aspetto fondamentale dell’uomo nel suo libro L’anima del mondo e il pensiero del cuore.
In questo libro Hillman, parlando appunto dell’estetica definisce la psiche come la vita delle nostre risposte estetiche.
Quel senso del sapore delle cose, quel fremito di eccitazione o di dolore, quel moto di ripugnanza o quell’allargarsi del petto — dice Hillman — da intendere come reazioni spontanee dei gusti del cuore.
Si tratta in altri termini, di curare e affinare, le nostre capacità particolari di conoscere il mondo dove bello e buono corrispondono (questo lo chiarisce bene Luigi Zoja, analista junghiano di Milano, nel suo libro Giustizia e bellezza).
Soltanto da questo piano della conoscenza si possono trarre pienezza e significato dalle cose che facciamo.
Tutto questo perché ciò che è per noi esteticamente bello coincide anche con quello che è buono per noi, che favorisce il nostro benessere.
Ricevere denaro educa a non giocare a fare i santi da immaginetta, insegna a riconoscere il proprio bisogno concreto, vitale, del frutto del lavoro dell'altro. Pagare significa dare valore alle fatiche dell'anima, riconoscerle un posto nel mondo, inserirla nelle gerarchie del tempo di lavoro necessario per potersi procurare il suo cibo particolare. Il denaro cura dalla falsità della contrapposizione fra utilità e amore. Ogni amore è scambio, e il denaro consente che si provveda ad astenersi da molte altre forme di scambio di riconoscimenti apparentemente paritari.
Romano Màdera Tweet
Su questo punto credo sia utile sgombrare subito il campo da una credenza comunemente diffusa:
l’idea di credere che la dimensione materiale, i nostri averi, siamo cosa di poco valore se confrontati con altri fattori ben più «nobili».
Questo, di fatto, è un retaggio collettivamente condiviso sostenuto da una equazione arcaica che guarda alla dimensione materiale come a qualcosa di secondario valore rispetto alla dimensione spirituale.
Detta in altri termini, il fatto di ritenere che gli oggetti materiali siano da considerarsi in termini valoriali di minore spessore rispetto ad altri ritenuti più elevati, si tratta di un pre-giudizio.
O meglio: se ci trovassimo a scegliere tra salvare una vita in pericolo o perdere il proprio orologio d’oro, credo saremmo tutti d’accordo nel ritenere che una vita umana vale di più di un orologio per quanto prezioso esso sia.
Vista da vicino la cosa però, ha una diversa connotazione.
Veramente possiamo ritenere che non renderebbe la qualità della nostra vita migliore il fatto di poter godere materialmente di certi comfort?
Beh, io direi di no!
La dimensione materiale della vita (ciò che possediamo o i soldi che riusciamo a guadagnare) è uno degli ingredienti utili da coltivare per raggiungere un livello di soddifazione personale.
La credenza diffusa che tende a considerare le risorse materiali, e dunque i beni che possediamo e soprattutto i soldi, come un prodotto del tutto sganciato dalla soddisfazione personale, non corrisponde al vero.
Parte della soddisfazione personale che riusciamo a raggiungere deriva pure dalle cose che possediamo e dal denaro che siamo in grado di generare.
Stiamo parlando di essere soddisfatti delle proprie azioni, del proprio tenore di vita, della possibilità di vivere un livello di vita adatto e in equilibrio con il modo cui sentiamo di vivere meglio.
Allo stesso modo, parlare di soddisfazione personale nel lavoro significa svolgere una professione che sia il più possibile in linea con le tue scelte, le tue inclinazioni, le tue passioni, la tua vocazione.
Questo non sempre è possibile, sicuramente (forse!).
Non sempre quello che poi diventa il tuo lavoro coincide perfettamente con le tue aspettative, i tuoi sogni, la realtà che avevi immaginato.
Questo in parte deriva pure, da due fattori fondamentali:
Il primo punto è facile da capire:
ha a che fare con una logica di causalità razionale rispetto alle scelte che hai compiuto quotidianamente negli ultimi tempi e i risultati che hai ottenuto.
Il secondo punto è più sottile, nel senso che intuire perfettamente che il tipo di lavoro che vogliamo fare, il desiderio di realizzare in un particolare modo il nostro lavoro, non sempre si può allineare alla realtà che ci circonda.
O meglio, difficilmente l’ideale che abbiamo nella mente all’inizio troverà una sua perfetta coincidenza nel mondo reale.
E questo, non perché bisogna essere pessimistici ed evitare qualsiasi illusione, quanto, piuttosto, perché ciò che vogliamo raggiungere nella vita in generale o lavorativa in particolare, spesso è solo una bozza, un orientamento.
Ed è un bene che sia così!
Quando parliamo di soddisfazione nel lavoro stiamo parlando precisamente di un orientamento, di un senso, non tanto di una minuziosa immagine di quello che intendiamo raggiungere che, se non ottenuta, ci lascerebbe delusi.
Spesso possiamo realizzare una soddisfazione professionale solo se adattiamo il nostro modello ideale di lavoro alla realtà che ci circonda e al momento storico che attraversiamo.
Si tratta di lasciare intenzionalmente uno spazio vuoto, germinativo, disponibile alla creatività dell’esistenza.
Uno spazio allo stesso tempo psichico e concreto dove può agire l’intreccio tra realtà interna avvertita e condizioni reali del mondo intorno a noi.
Questa forma di adesione flessibile al nostro ideale lavorativo ci permette di non essere delusi dalla realtà che riusciamo a costruire via via nel tempo.
In definitiva tutti si ammalano perché hanno perduto ciò che le religioni vive di tutti i tempi hanno dato ai loro fedeli; e nessuno guarisce veramente se non riesce a raggiungere un atteggiamento religioso. Naturalmente questo non ha nulla a che fare con la confessione di una fede o l'appartenenza a una Chiesa.
Carl Gustav Jung Tweet
Secondo Jung, lo sviluppo della personalità non ubbidisce a nessun desiderio, a nessun ordine, a nessuna considerazione, ma solo alla necessità.
È indispensabile una spinta motivante derivata da eventi interni o esterni per poter agire.
Possiamo essere spinti ad agire verso un maggiore sviluppo della nostra personalità mediante un insieme di condizioni intime che spesso hanno a che fare con uno stato di malessere o un sintomo dal quale non riusciamo a liberarci.
Siamo a quel punto costretti a fare qualcosa pur di reagire ad uno stato intimo avvertito come insopportabile.
Oppure, possono determinarsi particolari condizioni esterne a noi per cui siamo costretti ad agire in qualche modo verso una nuova esperienza di vita.
Fatto rimane che ciò che ad un certo punto ci spinge ad agire è un fattore irrazionale, ossia, un qualcosa che non è immediatamente comprensibile se non nella misura in cui sentiamo che non possiamo più far finta che non esista.
Ed è questo “qualcosa“, questo “non so che“, che fa di fatto la vera differenza.
O meglio: affidarsi in parte a questo elemento sensibile del tutto irrazionale significa dare ascolto ad un fattore non propriamente conosciuto ma che pure c’è ed agisce.
Si tratta di cogliere e di dare forma a qualcosa che la tua coscienza non è in grado di decifrare perfettamente.
Questo è quello che Jung definisce come un punto di vista religioso:
si tratta si maturare un atteggiamento generale rispetto alle scelte della vita, del modo di stare al mondo, caratterizzato dall’idea che in parte le cose della vita sono incomprensibili.
Tutto questo accade perché è nella natura della psiche essere equivoca e non univoca.
Mi spiego meglio.
Soltanto una parte di ciò che ci abita possiamo dire di conoscere veramente.
Tutta una serie di processi psichici, come emozioni, pensieri, sensazioni, intuizioni, ecc., sono processi psichici inconsci, ossia, inconsapevoli, fuori dalla nostra consapevolezza.
Ci sono, agiscono, ma noi non ce ne accorgiamo.
Ci rendiamo conto che qualcosa ha agito senza il nostro controllo solo a cose fatte, soltanto quando avvertiamo un malessere, un sintomo o facciamo certe scelte invece che altre, ecc. (se vuoi approfondire meglio il tema leggi il mio articolo su Come funziona una psicoterapia).
Pertanto, se si vuole essere veramente onesti con se stessi, dobbiamo ammettere che conosciamo soltanto una parte del nostro mondo interno.
Bisogna arrendersi all’evidenza e ammettere a noi stessi che una parte di quanto ci accade costantemente non ci è possibile conoscere.
Questo è l’atteggiamento migliore che si può conquistare.
Un atteggiamento che guarda all’esistenza con una buona dose di parzialità.
Non tutto si può comprendere. Non tutto si può capire. Non tutto si può prevedere. Non tutto si può anticipare. Non tutto si può evitare.
Si può evitare che cada la pioggia? Si può evitare di invecchiare? Si può evitare la morte?
Certo, avere a che fare con l’incertezza disorienta, fa paura.
Si perde il contatto con la solidità della terra. Ci si espone al caos.
Ma non è forse dalla tensione tra ordine e caos che si muove la vita?
Tra ordine e caos.
All’interno di questi due poli oscilla la nostra vita, costantemente e inevitabilmente.
Quando cadiamo nella disperazione, siamo nel caos. Sperimentiamo l’insicurezza, la vertigine, l’angoscia, il terrore.
Quando seguiamo le regole siamo nell’ordine. Dove tutto è certo, familiare, conosciuto, prevedibile, rassicurante.
Iniziamo a dubitare dell’autenticità della nostra esistenza quando siamo esposti alla dicotomia “ordine e caos”.
Dubitiamo di noi proprio quando oscilliamo tra queste due antinomie, quando siamo intrappolati all’interno di una modalità che ci vede precipitare nel caos o soffocati nell’ordine.
Ma in tutto questo, esisterà pure un modo per non essere sempre esposti a queste forze?
Un modo c’è e non riguarda assolutamente la capacità di scegliere l’uno o l’altro dei poli a seconda dei casi.
Riguarda la capacità di conquistare un atteggiamento particolare, un modo di osservare le cose, una capacità di sviluppare una sorta di coscienza osservante.
Un particolare atteggiamento che sovrasta entrambi quei poli e che è sensibile ad ognuna di quelle oscillazioni.
Un punto di osservazione che si limita a prendere atto delle cose che accadono muovendosi in maniera flessibile sopra e intorno a quelle polarità agendo di conseguenza.
Questo è quanto di più vicino possa esserci rispetto all’invito di Jung a coltivare un punto di vista filosofico o religioso nei confronti della vita (benché non sia il solo, ovviamente).
Una vita soddisfacente include, inevitabilmente, la possibilità di muoversi tra il raggiungimento dei propri ideali (verticalità) e, contestualmente, fare esperienza dell'ampiezza delle cose della vita (orizzontalità)
Ludwig Binswanger Tweet
Facciamo delle scelte, più o meno importanti, costantemente.
Facciamo progetti, immaginiamo scenari di vita felice, di successi e soddisfazioni.
Possiamo avere diverse idee, anche creativamente valide e importanti che amiamo, a cui siamo legati fortemente.
L’unico guaio è che se le stesse idee, gli stessi progetti, le stesse ambizioni non incontrano il momento opportuno nella condivisione con gli altri, non sono nel luogo e nel tempo giusto, non produrranno nulla concretamente.
Questo creerà in te soltanto frustrazione e disperazione.
Questo accade non perché l’idea che hai non ha alcun valore o è sbagliata, o ancora il tuo modo di pensare o entrare in relazione con il mondo è difettosa, ma ha a che fare con il fatto che quelle stesse idee così valide e importanti non trovano una buona sintonizzazione con il mondo intorno a te, in quel dato momento storico.
Essere sintonizzato con il mondo intorno a te significa essere nel mondo, significa avere la capacità di decifrare abbastanza correttamente lo spirito del tempo, come funziona e agisce il mondo reale intorno a te.
Rimanere sintonizzati con il mondo reale intorno a te significa superare quell’infantile modalità del pensiero per il quale la realtà si può piegare al tuo desiderio o che la realtà si possa modellare e magicamente trasformare al tuo semplice volere.
Questa cosa è molto importante poiché conferisce alla realtà dell’umano la sua limitatezza e con essa la sua possibilità.
Quando le risorse razionali disponibili sono esaurite, quando non sai più come andare avanti e ti rendi conto di essere bloccato, a nulla valgono domande del tipo:
Che cosa mi consiglia dottore? Che cosa devo fare?
Beh, il vero paradosso è che nessuno lo sa!
Quando un paziente mi rivolge questo genere di domande sono tenuto a rispondere onestamente che di fatto io non ne ho alcuna idea.
O meglio, so esattamente che cosa razionalmente o utilizzando una goccia di buon senso gli farebbe del bene, ma questa è una cosa che sa perfettamente anche lui e che in sé non vale granché.
E questo, non perché non abbia alcun senso, ma perché quello che ci sarebbe da fare sembra essere precluso, non si può fare, crea troppi conflitti.
La vera fregatura è che non è sicuro neache lui. Non è totalmente sicuro che mettendo in atto certe decisioni troverà davvero la pace che cerca, ossia una tregua alla conflittualità che vive.
E quì dunque si configura il vero volto della questione, il punto esenziale del malessere e dei sintomi dolorosi.
Comprendere pienamente che il sintomo è il risultato di una antitesi soppressa! (Carl Gustav Jung, Tipi psicologici).
Quando restiamo impigliati nella concezione idealizzata di come dovremmo sentirci, non riusciamo ad accettare le cose come sono.
Ciò di cui abbiamo davvero bisogno è un approccio naturale che ci permetta di passare all'azione tenendo conto delle circostanze.Gregg Krech Tweet
Detta in altri termini, il sintomo, o il malessere, nasce proprio dal fatto che viene evitata la conflittualità tra aspetti diversi e apparentemente inconciliabili della medesima cosa.
Di fronte ad una scelta, per esempio, siamo sempre un po’ esposti al dubbio.
Ci chiediamo se è la cosa giusta da fare, se ci saranno conseguenze positive o negative, oppure se nel caso non dovremmo rinunciare a qualcos’altro.
Questa conflittualità nasce proprio dal fatto che intimamente qualcosa di nuovo, qualcosa di inevitabilmente parzialmente ignoto a noi stessi ci sta esponendo alla natura del caos.
Ci espone ad un momento di transizione dove siamo letteralmente in balia della nostra stessa trasformazione.
Il dubbio ci abita.
Marta è una mia paziente che viene da me in terapia da un paio di anni per un importante problema di insonnia insorto dopo la perdita del padre.
Vive con la madre cui è molto legata soprattutto da quando il padre non c’è più.
Durante una seduta, mi racconta una buona notizia che ha ricevuto e che forse le cambierà la vita:
— Sono contenta oggi dottore, ho trovato un nuovo lavoro! — entusiasta mi confida Marta — È quello che ho sempre sognato, il lavoro che desideravo da tempo.
Ho lavorato tanto per raggiungere questo traguardo e sono molto fiera di me.
Finalmente ho ottenuto quello che desideravo. Dopo tanto sforzo e sacrificio ce l’ho fatta!
Mi trasferisco tra due settimane qui a Roma.
— Mi sembra proprio una buona notizia – le dico sottolineando il suo entuasiasmo — è da tanto che aspettava qualcosa di simile. È un traguardo molto importante, un nuovo inizio direi per certi versi.
— Marta ha gli occhi spalancati, piena di vita e di eccitazione. La vedo vagare con lo sguardo: sembra riuscire ad immgainare ogni dettaglio della sua nuova vita che l’aspetta.
Dopo qualche secondo, mentre l’eccitazione si abbassa un po’ provo a portarla su un terreno un po’ scivoloso.
— Sua madre che cosa le ha detto, l’ha già condivisa con lei questa notizia? – le chiedo consapevole delle possibili criticità di questo argomento.
In un attimo il viso di Marta si allunga. Abbassa lo sguardo e cambia umore. Passa qualche secondo, poi mi confessa.
— Mia madre si è messa a piangere ieri sera quando gliene ho parlato. Mi ha detto che sono un ingrata. Egoista. Che penso solo a me stessa.
Se l’è presa con me, si è arrabbiata tantissimo. Dice che non mi interesso di nessuno, non mi frega di nessuno, basta solo che io sono felice, per il resto gli altri possono fare come vogliono e pure morire!
— Marta è combattuta. Vedo i suoi occhi guardare il pavimento. È confusa, agitata. Sembra voler reagire, vuole esplodere, poi si ritrae.
— Che faccio adesso? Non so più che fare. Non dovrebbe essere così. Mia madre mi dovrebbe sostenere. Non è questo che fa una madre?
E se mi stessi illudendo? Se mi stessi sbagliando, in fondo chi sono io. Quel lavoro potrebbe farlo chiunque. Non è che vale granché. Io stessa, alla fine, non valgo granché.
La verità e che mi sento in colpa. Tanto. So che non c’è nulla di male in quello che faccio, ma non riesco a non sentirmi bene. Felice.
È una cosa bella quella che mi sta accadendo, no? Che cosa dovrei fare? Fregarmene? Fare finta di nulla?
In fondo è vero, mia madre rimarrà da sola se accetto il lavoro. Ma io che cosa posso fare? Che devo fare?
— Marta mi guarda per un attimo, cercando una qualche risposta. In cuore suo lo sa quello che deve fare. Per ora però, il dolore è troppo forte per poter decidere.
La vita è troppo preziosa per essere vissuta unicamente tra convenzioni e menzogne.
Luigi Zoja Tweet
Il nostro volere ci spinge ad andare verso una determinata meta. A dare concretezza a ciò che sentiamo essere il nostro posto nel mondo.
Questa spinta, prima o poi, deve fare i conti con la realtà.
Come nel caso di Marta scegliere di accettare il lavoro che ha sempre sognato significa sopportare la colpa di abbandonare la madre alla sua solitudine.
Significa per certi versi tradire il legame che le unisce e rischiare di non essere più la figlia amorevole e premurosa che è sempre stata.
Questo conflitto nell’intimo può essere lacerante, può farla indietreggiare, può farla cadere e rinunciare.
La tensione può essere insopportabile.
Ma la migliore visione che si può assumere sarà proprio quella di ritenere che le due prospettive di scelta sono entrambe valide e reali.
Vivere questa tensione, senza rinunciare a nulla, senza fare finta che uno degli aspetti non ci sia, significa assumere la migliore e più salutare posizione possibile.
Proprio perché si tratta, onestamente, di riconoscere che certi vissuti esistono e vanno legittimati per quello che sono.
Significa che certe emozioni, anche quelle dolorose esistono e ci attraversano.
Evitarle, non riconoscerle o fare finta che non esistono significa delegittimare una parte dei nostri vissuti, significa escludere dal campo della nostra cosapevolezza e della nostra comprensione una parte del nostro sentito.
Stare nel mezzo di questa complessità di emozioni, significa tentare di conoscere e di dare legittimità ed esistenza a tutta la complessità del nostro stare al mondo.
In Giappone esiste un concetto specifico per questo luogo di mezzo: lo chiamano ikigai, la tua ragione di vita.
Ognuno di noi ha in sé il compito di cercare e sviluppare il proprio ikigai.
Tu sai già qual è il tuo ikigai? Proviamo a capire meglio di che cosa si tratta.
L'ikigai dà senso alla vita e insieme la forza di tirare avanti. Riguarda la scoperta, la definizione e l'apprezzamento dei piacerei che la vita ci offre e che per ciascuno di noi racchiudono un significato particolare.
Ken Mogi Tweet
Ikigai (生き甲斐) è un termine giapponese che descrive i piaceri e i contenuti di senso della vita.
La parola ikigai è composta da iki («vivere») e gai («ragione»), traducibile genericamente in italiano con “la tua ragione per vivere“.
Non ha direttamente a che fare con il successo: puoi coltivare il tuo ikigai senza per questo dimostrare niente a nessuno.
In maniera semplice, potremmo dire che rappresenta quel qual cosa che ci spinge ad alzarci la mattina, il nostro scopo nella vita che ci rende la vita significativamente piena e soddisfacente.
Lo scrittore del National Geographic Dan Buettner, in uno speech al TED del 2014 dal titolo Come vivere fino a 100 anni e più ha descritto l’ikigai giapponese in rapporto alla longevità e la salute.
(* Sono disponibili i sottotitoli in italiano: clicca sulla “rotellina” delle impostazioni del video, la voce “sottotitoli”, poi “traduzione automatica” e scegli la lingua italiana).
Secondo le ricerche citate da Buettner esistono delle aree nel mondo, dette «zone blu» in cui la popolazione raggiunge un’età di vita 10 volte superiore rispetto alle altre zone del mondo.
Queste aree interessano la popolazione di Okinawa, in Giappone; la comunità di Nicoya in Costa Rica; Icaria in Grecia; presso le comunità degli Avventisti del Settimo Giorno di Loma Linda in California; e, per quanto riguarda l’Italia, la provincia di Nuoro in Sardegna.
Le popolazioni che insistono in queste aree hanno delle abitudini e uno stile di vita particolare. Specie ad Okinawa.
Per un maestro di karate di 102 anni l’ikigai è offrire attenzione amorevole nei confronti delle arti marziali; per un pescatore di 100 anni si tratta di continuare a pescare per la sua famiglia tre volte la settimana; per una donna di 102 anni l’ikigai è tenere in braccio la sua quadrisnipote.
L’ikigai abita le piccole cose.
Per Ken Mogi, neuroscienzato giapponese, autore de Il piccolo libro dell’ikigai. La via giapponese alla felicità, si tratta di un atteggiamento mentale in cui i soggetti sentono di poter aspirare a un’esistenza felice e attiva.
In breve — dice l’autore — l’ikigai riflette la visione che una persona ha della propria vita.
Ma perché è importante conoscere il mio ikigai?
Il punto ideale in cui si colloca il tuo ikigai, la tua “ragione di vivere” è all’incrocio tra 4 aree significative della tua vita sia oggettive, sia soggettive e che, a loro volta intercettano altrettante 4 aree intime di significato.
Il tuo Ikigai è una perfetta combinazione tra:
Come si può capire facilmente, si tratta di un perfetto equilibrio tra ciò che intimamente senti essere aderente alla tua personale individualità e ciò che là fuori nel mondo trova il giusto riconoscimento sociale e storico.
Ecco perché è importante conoscere e coltivare il tuo ikigai:
se riesci a dare vita a questa particolare combinazione la tua vita acquista un significato particolare e con esso una particolare ricchezza che dona alla tua esistenza un senso profondo che ne traccia la continuità.
Con un piccolo schema grafico possiamo rintracciare l’ikigai in questo centro:
Quali sono per te le cose che hanno più valore? Quali sono le piccolo cose che ti danno più piacere fare?
Da queste domande si inizia — secondo Ken Mogi — per capire quale è il tuo ikigai; a partire da qual è il buon motivo per farti alzare la mattina!
Il tuo ikigai si costruisce sopra 5 pilastri fondamentali che possono offrirti la base per dare senso profondo alla tua vita.
Vediamo quali sono.
So cos'è la felicità: è il senso profondo di essere presente, di stare facendo ciò che dobbiamo assolutamente fare per essere noi stessi.
Joseph Campbell Tweet
Gli elementi alla base dell’ikigai, i principi fondamantali sui quali è possibile sviluppare il tuo ikigai sono 5.
Questi 5 pilastri dell’ikigai sono:
Cominciare in piccolo significa assumere un atteggiamento molto vicino all’orgoglio, essere seriamente presi da quanto si sta facendo, a tal punto da dedicare un’attenzione e una cura ad ogni piccolo particolare delle tue azioni.
Significa essere dediti ad una cosa, essere impegnati, caparbi, sino a raggiungere il massimo grado di espressione possibile della propria personalità.
Significa dedicare tempo e cura costanti a ciò che facciamo cercando di perfezionare sempre di più il tuo operato.
Si tratta di essere assorbiti da quanto si sta facendo con dedizione, senza pensare ad altro, ma solo fare con sempre maggiore impegno e attenzione ciò che stai facendo, per raggiungere una certa perfezione.
È proprio da questa puntuale ricerca di fare sempre meglio che ad un certo punto accade che qualcosa di completamente nuovo viene generato.
Questo momento creativo è quello che si vuole ottenere: il proprio personale contributo alle cose del mondo.
Quando si è perfettamente assorbiti da quanto si sta facendo, se quello che stai facendo è proprio il tuo ikigai, ti dimentichi di te.
Ma che cosa significa dimenticarsi di sé?
Dimenticarsi di sé significa agire in perfetta sintonia con il tuo stato emotivo interno e la condizione contingente esterna.
Significa immergersi totalmente in quello che stai facendo a tal punto da raggiungere uno stato particolare di coscienza in cui non hai bisogno di riflettere, agisci e basta!
Questo stato delle cose è in qualche modo l’indice del fatto che si sta operando nella direzione giusta rispetto al proprio ikigai.
Potersi dimenticare di sé significa sospendere per un certo periodo di tempo la riflessione, o meglio sopendere la particolare riflessione cui siamo abituati a vivere
Ma come faccio a dimenticarmi di me?
Riuscire a dimenticarsi di sé, significa allora fare in modo che il tuo “Io” non sia al centro dei tuoi pensieri, dei tuoi sentiti, del tuo universo.
Significa essere totalmente in contatto con lo stato presente delle cose.
Significa stare nel «qui e ora»!
Stare nel «qui e ora» è il 5° pilastro dell’ikigai. Se vuoi leggerlo subito clicca qui!
Un bambino spensierato non ha bisogno dell’ikigai per andare avanti.
Semplicemente non si preoccupa di definire il proprio «io».
Gode semplicemente del piacere sensoriale di ciò che vive attraverso le sue azioni, di ciò che accade.
L’armonia e la felicità derivano dalla negazione di questo «io», come un fardello
Lo psicologo ungherese Mihály Csíkszentmihályi lo chiama flow, «flusso», uno stato psicologico di esperienza ottimale, come la chiama l’autore.
Si tratta di uno stato della mente in cui sei totalmente immerso in ciò che stai facendo a tal punto che ogni altra cosa non ha più importanza, in quel momento semplicemente non esiste.
Sei totalmente presente nel «qui ed ora» che la tua mente non vaga tra passato, e futuro, ma sei totalmente ancorato al corpo e alle emozioni di adesso.
Le preoccupazioni o le altri distrazioni si “dimenticano”. Sei totalmente focalizzato su quello che stai facendo.
Mihály Csíkszentmihályi ne parla in un TED Talks del 2004, che puoi trovare a questo link.
(Se vuoi saperne di più il libro di Csíkszentmihályi sulla psicologia dell’esperienza ottimale si intitola proprio: Flow. The Psychology of Optime Experience).
In questo stato di flow, presti attenzione a tutte le sfumature che ti circondano.
In questo stato è possibile trarre piacere da ciò che stai facendo: non lavoriamo per i soldi, ma lavoriamo per il piacere che questo ci suscita.
Si vive l’armonia del fare ciò che sentiamo essere la cosa che più vogliamo in quel momento, a tal punto da essere totalmente assorbiti da essa.
Questo genere di esperienza, fondamentale per seguire il proprio ikigai, si estende anche all’esterno, verso il mondo circostante a noi e al nostro ambiente.
Si tratta allora, anche di essere sensibili a ciò che ci circonda, all’ambiente che ci è intorno, alla vivibilità degli spazi e alla sua sostenibilità.
Si tratta di essere sensibili a quanto esiste, nel mondo reale, intorno a noi.
A partire dagli oggetti che possedi, sino al modo che hai di trattare l’ambiente intorno a te.
La sensibilità e l’attenzione rispettosa verso gli altri e verso la realtà delle cose è parte integrante del tuo ikigai.
Vivere in armonia con gli altri, con la società, l’ambiente sono parte integrante del tuo ikigai: i gesti che compi, le azioni che conduci hanno un effetto sugli altri e sulle cose intorno a te.
Il quarto pilastro dell’ikigai è di fatto un invito a trarre il massimo del piacere dalle piccole cose.
Un invito inevitabilmente a concetrarci sui fondamentali aspetti della vita, i nostri valori: quegli aspetti intimi senza i quali sarebbe impossibile orientare in maniera ottimale le nostre azioni.
Le piccole cose possono essere fonte di gioia solo a partire proprio dall’accettazione di sé.
Quando accettiamo totalmente noi stessi, ci dimentichiamo di noi stessi.
Quando ci dimentichiamo di noi stessi possiamo godere della serenità che deriva dall’essere sensibili a tutto quanto ci circonda.
Ferma la tua mente.
Ferma il fluire incontrollato della tua mente. Le immagini che corrono susseguendosi l’una all’altra.
Fermati di fronte a ogni rappresentazione. Esamina la sua natura. Analizza ogni singola parte di essa. Che cosa contiene? Dove ti sta conducendo?
Scegli di quali fantasie vuoi alimentare la tua mente.
Rimani fermo all’esperienza di quanto sta accadendo.
Se inizi a pensare, il cuore della questione ti è già sfuggito. Quando l’attività concettuale si ferma, si rimane aderenti all’esperienza delle cose, senza alcun giudizio, senza alcun valore.
La mente, in questo stato, è «non-mente»: una disposizone mentale non turbata, una mente che non produce pensieri.
Ma come è possibile non pensare? È davvero possibile non pensare?
Dimenticare ciò che si sta facendo. Questo è il punto.
Per fare questo — ci dice il maestro Daisetz Suzuki, nel suo Lo Zen e la cultura giapponese — è meglio tenere la mente nella parte bassa della pancia, appena sotto l’ombelico.
Questa mente nella pancia permette di adattarsi alle situazioni che mutano continuamente in maniera più facile.
Se la mente si sofferma o indugia su un fatto, un’emozione, un’immagine, smette di fluire liberamente, si blocca, si pone degli ostacoli e delle proibizioni.
Diversamente, in uno stato di fluidità la mente non sosta in alcun luogo e si distribuisce equamente in tutto il corpo.
Hai la capacità di aderire e assecondare lo stato del tuo corpo e le sue variazioni in ogni istante senza per questo dover riflettere o pensare a nulla.
Non basta semplicemente sapere cos'è la Mente: bisogna mettere in pratica nella vita di ogni giorno tutto ciò che la contraddistingue. Se ne può parlare a lungo, si possono scrivere libri per spiegarla, ma tutto questo non è sufficiente.
Per quanto si possa parlare dell'acqua e descriverla in modo comprensibile, questo non rende reale l'acqua di cui si parla.
Finché ci si limita a parlare, non si conosce realmente.Daisetz T. Suzuki Tweet
Una mente fluida, che si muove costantemente in equilibrio, senza essere ostacolata o limitata da pensieri, emozioni, ricordi, aspettative è una mente flessibile che si adatta continuamente alle circostanze del tempo.
Questo non significa in alcun modo assumere una posizione passiva di fronte alle cose o alla vita, anzi tutt’altro.
Si tratta di trovare una centratura solida del proprio funzionamento psichico, una certa apertura sensibile verso le cose, che può permetterti di decifrare quanto accade intorno a te e dentro di te, senza pensiero.
Ma che come funziona la flessibilità psichica? Come si ottiene?
Vediamola un po’ più da vicino.
Con l'espressione "flessibilità psicologica" si intende la capacità di adattarsi a una situazione con consapevolezza, apertura e concentrazione e di intraprendere un'azione efficace guidata dai tuoi valori.
Russ Harris Tweet
Il noto psicologo Andrew Solomon in un suo speech ai TED Talks, dal titolo Come i momenti peggiori della nostra via ci rendono ciò che siamo usa un’espressione secondo me puntuale, che definisce bene il senso di ciò che la vita ci chiama a incarnare:
Forge meaning. Build identity! Forgiare un senso, costruire un’identità!
Questo rappresenta un po’ il fulcro essenziale della soddisfazione rispetto alla propria vita.
Dare senso, rintracciare uno scopo, una rotta significativamente solida, irrinunciabile e indiscutibile che offra significato costante a tutti i momenti essenziali della tua vita.
L’espressione di Solomon, «Forgiare un senso» rende bene il tipo di lavoro che ci vuole per fare in modo che la tua vita sia indirizzata verso la felicità.
Il senso diventa allora, la bussola attraverso la quale è possibile orientarsi tra quanto ci accade interiormente e quanto si muove all’esterno da noi.
L’invito a sostare nel mezzo, a resistere alla tentazione di compiere una scelta di giudizio rispetto a quello che sentiamo o rispetto a quello che ci accade, significa riuscire a sopportare la possibilità che le cose sono buone e nocive allo stesso tempo, che sono bianche e nere allo stesso tempo.
Tutto dipende dal tuo atteggiamento.
Da come funziona la struttura del tuo «occhio mentale» con il quale osservi le cose.
Questa struttura è precisamente al tua personalità.
Un insieme particolare ed unico di temperamento, inclinazioni, memorie, esperienze, apprendimenti, ecc. che contraddistinguono il modo con cui interpreti il mondo.
Un mondo che non è totalmente reale, ma lo è solo parzialmente.
È il modo tuo specifico e totalmente diverso di intendere le cose del mondo.
Questo vuol dire che ognuno di noi è portatore di un modo distintivo di interretare il mondo, diverso l’uno dall’altro.
Contemplare la possibilità che possano esistere altri modi diversi di intendere il medesimo aspetto della vita, la medesima scelta, ecc. — come nel caso di Marta descritto prima — significa affacciarsi alla possbilità che possano co-esistere diversi modi di vedere le cose.
Tenere insieme queste sfumature, sopportare la possibilità che non esiste una scelta giusta e una sbagliata, che non esiste in maniera sistematica un buono e un cattivo delle cose, significa abitare uno stato di tensione che è la massima espressione possibile della verità delle cose.
Da questa tensione, da questo sostare in mezzo alla tensione che tutte le cose possano essere «questo» e contemporaneamente «quell’altro» signfica esporsi alla più plausibile possibilità di rintracciare un senso intorno alle proprie decisioni.
Il senso diventa allora, la capacità di ospitare contemporanemaente luce e ombra delle cose.
Questo stato delle cose, intimamente ti porta a fare i conti non soltanto con l’ambiguità naturale delle cose ma sopportandone la tensione, inevitabilmente, anche a fare i conti con la tua stessa ambiguità.
Ecco perché, in questo stato di difficoltà, di confusione tra aspetti buoni e cattivi di sé, è fondamentale tenere saldamente viva dentro di sé la convinzione di quello che si sta cercando di realizzare.
Quello che si avverte essere la propria ragione di vivere. Il proprio senso.
Il «perché sto facendo tutto questo», cosa sono portato a realizzare.
Riconoscere la vocazione come un dato fondamentale dell'esisteza umana; allineare la nostra vita su di essa; trovare il buon senso di capire che gli accidenti della vita, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo.
Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente. Non importa: alla fine verrà fuori.
Il daimon non ci abbandona.James Hillman Tweet
«Se non si sa chi si é nel profondo di sé, la felicità non sarà che una chimera o la meta mancata di una perenne frustrazione».
Questo è quanto afferma Davide Susanetti, professione di letteratura greca a Padova, nel suo libro La felicità degli antichi. Idee e immagini di una buona vita.
La felicità è una questione che ha a che fare con la libertà e l’indipendenza.
La felicità, in greco è l’Eu-daimonia, la buona tutela demonica.
Parola composta da «eu», che significa «bene», e «daimon»: una sorta di agente divino, invisibile che indirizza la tua vita intervenendo nel corso degli eventi.
Il daimon insito nella felicità è quella dimensione intima di essere radicalmente trasportati, ostinatamente, verso un certo tipo di vita, un certo tipo di scelte.
Quando hai compreso quale è il tuo scopo nel vivere, tante cose diventano indifferenti e soprattutto irrilevanti.
Tante cose perdono inevitabilmente tutto il loro potere di destabilizzare la tua intimità emotiva.
Questo nucleo inamovibile, questo senso intimo, questo vertice della psiche è quello che i greci chiamavano il proprio daimon.
Il tuo daimon è la tua vocazione, il tuo senso, il tuo ikigai, la tua ragione per alzarti la mattina ed è sempre al di sopra degli eventi.
Potremmo dire che è una spinta intima ad agire in una particolare direzione e a compiere determinate scelte, anche faticose o contro ogni ragione.
Si tratta di una spinta del tutto autonoma che è del tutto indifferente riguardo per esempio lo sforzo che, aderendo a questa spinta, hai da sopportare.
Porta con sé una certa dose di urgenza e di perentorietà. È ciò che senti di fare anche se in sé può non avere un particolare fondamento razionale.
È quello che devi fare!
Con questa perentorietà, con questa radicalità è necesario però assumere un atteggiamento di equilibrio che tenga conto pure dei limiti dell’umano.
Non dimentichiamoci che la dimensione del daimon ci spinge a fare lo sforzo per creare dentro di noi e intorno a noi una condizione di maggiore benessere.
Conquistare uno stato di felicità significa allora, saper moderare le spinte irrazionali del daimon, con le scelte della volontà razionale che pure ci appartengono.
In altre parole significa tener conto di chi sei, da dove vieni, quali sono le tue potenzialità, quali sono i tuoi strumenti che hai a disposizione, qual è il momento storico in cui vivi.
È un atto di moderazione e di equilibri, o se vogliamo di dubbio creativo.
Tutto questo richiede un certo sforzo, un certo esercizio e forse anche una buona dose di autodisciplina.
È un lavoro su se stessi.
Richiede tempo, dedizione e una buona capacità di autoanalisi.
La felicità è un arresto nello scorrere delle giornate, una sospensione che impone di osservare ciò che si fa e ciò che si è.
La conquista della felicità parte dal "compito" di chiedersi quale sia davvero il "proprio" compito essenziale di essere umani, e dall'applicarsi a esso con la maggior dedizione possibile.Davide Susanetti Tweet
Jung ha detto che il suo obiettivo terapeutico era quello di produrre nel paziente uno stato psichico nel quale il paziente inizia a sperimentare con la sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente fissato e pietrificato senza speranza (Jung, Scopi della psicoterapia).
Una fluttuzione permamente tra processi razionali e irrazionali.
Un costante movimento tra ciò che conosciamo, che ci permette di agire nel mondo e ciò che ancora non conosciamo bene o non siamo in grado di comprendere appieno.
La filosofia antica invitava ad un «ritorno in sé» (epistrophé) e alla «trasformazione di sé» (metánoia).
L’invito che ci viene offerto, tra un «ritorno a sé» e uno sforzo a «trasformare se stessi» implica un nesso profondo tra questi 3 fattori:
Una combinazione fondamentale che, come abbiamo visto, ruota intorno all’idea che la tua vita debba essere orientata e al servizio della ricerca di un senso, di un concreto esercitarsi quotidiano a creare la migliore combinazione possibile di sé da cui trarre soddisfazione, per sé e per gli altri.
La grandezza d'animo è il frutto dell'universalità del pensiero. Tutto il lavoro speculativo e contemplativo del filosofo diventa così esercizio spirituale nella misura in cui, elevando il pensiero fino alla prospettiva del tutto, lo libera dalle illusioni dell'individualità.
Pierre Hadot Tweet
Che cosa posso concretamente fare per raggiungere questa condizione?
Per racchiudere tutto il discorso che abbiamo fatto fino a questo punto possiamo tranquillamente con una certa dose di certezza che la felicità è un processo di costruzione di sé, un processo di sviluppo della propria personalità.
Tutto il tempo dedicato concretamente ad adoperarsi per questo compito non sarebbe una vita sprecata!
E ho anche sognato che lo scopo, l'essenza della vita conosciuta, che passa /
Consiste nel formare e determinare la nostra personalità per la vita ignota, che è eterna.Walt Whitman Tweet
Questo è il mio lavoro, questo è il mio impegno!
Un saluto, a presto.
Michele Accettella
Sono psicoterapeuta abilitato all’esercizio permanente dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.
In oltre 15 anni ho accumulato più di 15.000 ore di lavoro in ambito clinico, come psicologo e come psicoterapeuta.
Per diventare analista junghiano, per oltre 5 anni, sono stato anch’io in terapia, poiché per conoscere l’altro è necessaria una conoscenza approfondita di sé.
L’attenzione al lavoro clinico, ancora oggi, viene periodicamente rinnovata negli incontri riservati di supervisione che svolgo presso il “CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica“: un’associazione che da oltre 50 anni cura la formazione degli psicoterapeuti junghiani in Italia, di cui sono “Membro del Comitato Direttivo Nazionale”.
Sono Psicologo Analista abilitato alla docenza, alle analisi di formazione e alle supervisioni presso la “Scuola di Specializzazione in Psicoterapia” del CIPA riconosciuta dal MUR.
Dal 2021 al 2025 sono eletto Segretario scientifico e Direttore della Scuola di psicoterapia dell’Istituto di Roma del CIPA.
Dal 2019 sono stato iscritto nell’Albo dei docenti esterni di 1° Livello – Area C di Roma Capitale.
2006-2023, © Michele Accettella – Tutti i contenuti sono riservati.
Il sito (www.micheleaccettella.com) rispetta le linee guida nazionali del CNOP in materia di pubblicità informativa delle attività professionali sanitarie, nel rispetto dell’art. 40 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.
Disclaimer – Tutti i contenuti presenti in questo sito internet hanno finalità divulgative. Non possiedono alcuna funzione di tipo diagnostico e non possono sostituirsi al consulto psicoterapeutico specialistico.
Studio: 00179 ROMA – via Iacopo Nardi, 15
P.IVA: IT02176530695 – info@MicheleAccettella.com
Ordine degli Psicologi del Lazio – n. 19065 dal 17/02/2006
Laurea in psicologia (2004) – Università degli Studi di Firenze
Abilitazione all’Esercizio della Professione di Psicologo (2006)
Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara
Specializzazione in Psicoterapia ad Orientamento Analitico Junghiano (2011)
CIPA – Centro Italiano di Psicologia Analitica di Roma
2006-2024, © Michele Accettella – Tutti i contenuti sono riservati.
Il sito (www.micheleaccettella.com) rispetta le linee guida nazionali del CNOP in materia di pubblicità informativa delle attività professionali sanitarie, nel rispetto dell’art. 40 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.
Disclaimer – Tutti i contenuti presenti in questo sito internet hanno finalità divulgative.
Non possiedono alcuna funzione di tipo diagnostico e non possono sostituirsi al consulto psicoterapeutico specialistico.
Studio: 00179 ROMA – via Iacopo Nardi, 15
P.IVA: IT02176530695 – info@MicheleAccettella.com
Ordine degli Psicologi del Lazio – n. 19065 dal 17/02/2006
Registrati se vuoi ricevere nella tua email
aggiornamenti sui nuovi articoli e le nuove iniziative.